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Dell’infinito (e di altro)
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.»
(Giacomo Leopardi, Infinito)
Nel novembre del 1614 Galileo Galilei (che di lì a pochi mesi sarebbe stato denunciato al Sant’Uffizio come eretico per la sua concezione eliocentrica del sistema solare) ricevette la visita per alcuni giorni di un amico, Giovanni Tarde. Si parlò in quell’occasione del cannocchiale (che Galileo aveva realizzato migliorando una precedente invenzione dell’occhialaio olandese Hans Lippershey), ipotizzando tra l’altro che si potesse variare il fattore d’ingrandimento delle lenti; ciò avrebbe permesso non soltanto di vedere vicini oggetti lontani, ma anche di rendere osservabili oggetti vicini ma talmente minuscoli da non essere visibili a occhio nudo.
Era l’anticipazione del microscopio, che Galileo non poté realizzare per insufficienti conoscenze di ottica e che invece venne messo in opera ancora da un olandese, Antoni van Leeuwenhoek, pochi anni dopo. Il cannocchiale e il microscopio spalancarono comunque lo sguardo umano su due mondi: uno infinitamente grande, l’altro infinitamente piccolo, fino ad allora imperscrutabili se non con gli occhi della mente.
L’universo e le conoscenze che abbiamo di esso da quel momento non sono più state le stesse: il cannocchiale (e la sua evoluzione, il telescopio) e il microscopio hanno rivoluzionato il nostro modo di concepire la realtà e, conseguentemente, il criterio di verità. Sino al Seicento, cioè fino alla nascita della scienza moderna, la concezione della verità, tramandata dai filosofi greci, era piuttosto semplice: c’è un mondo, la realtà, quella che gli occhi vedono; noi ne conosciamo la verità quando vediamo correttamente (la stessa parola “teoria” viene dal greco ὁράω = vedere).
Successivamente, l’occhio umano non è più stato strumento della verità: l’universo osservabile si è dilatato infinitamente, nel grande e nel piccolo. Non a caso, lo scrittore francese Fontenelle (vissuto esattamente un secolo a cavallo tra Seicento e Settecento, e nipote tra l’altro di Corneille) affermò: “La filosofia nasce dal fatto che gli uomini hanno una vista debole e la mente curiosa”. Ebbene, cannocchiale e microscopio fornirono agli occhi umani quella potenza che madre Natura non aveva reputato necessario fornire loro*.
A parte la Chiesa, che accusò di eresia Galileo e lo costrinse all’abiura, pur avendo egli semplicemente reso noto a tutti ciò che aveva visto con il cannocchiale**, queste scoperte di mondi “invisibili” (il grande e il piccolo) fecero tremare le membra e il cuore di molti intellettuali; e così, se abbiamo da un lato il “naufragio” di Leopardi, dall’altro c’è Pascal, che nei suoi Pensées (il 72°, in particolare), esprime l’angoscia di essere sospeso tra il tutto e il nulla. E se è comprensibile lo sgomento di Leopardi di fronte all’infinito, lo è molto meno quello di Pascal, che pure scienziato lo era stato (ricordiamo le sue ricerche sulla teoria della probabilità e su quella dei fluidi e, soprattutto, la sua invenzione della pascalina, precursore delle calcolatrici meccaniche e, in ultima analisi, dei moderni calcolatori): ma forse nel caso del pensatore francese fu decisiva la crisi mistica che era seguita a un incidente nel quale per poco non perse la vita; a 32 anni abbandonò la scienza e si rifugiò nella religione, con grave danno della prima e non so con quale vantaggio dell’altra…
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Giunto a questo punto, stavo per proseguire nella narrazione di cosa si è scoperto successivamente nei due regni contrapposti dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, quando come un fulmine a ciel sereno è scoppiata la “bomba” mediatica dei neutrini superluminari. Penso che chi mi legge capisca che sto parlando degli esperimenti che sono stati compiuti tra il Cern di Ginevra e il laboratorio del Gran Sasso, con la comunicazione che sarebbe stata misurata una velocità dei neutrini (quelli di tipo mu) superiore a quella della luce.
Ora questo accaduto, in fondo, c’entra con quello di cui stavo parlando e perciò cambio volentieri direzione (tanto, mica sto dentro al tunnel della Gelmini!***) e quindi cerco di spiegare in poche parole cosa è successo, dato che i media hanno parlato tanto a vanvera.
Da tre anni il laboratorio del Gran Sasso, in collaborazione con il Cern di Ginevra sta portando avanti un esperimento sui neutrini (si badi bene, non sulla loro velocità, questo risultato è un sottoprodotto della ricerca principale). A giudicare dai risultati, sembra che questi neutrini abbiano compiuto il tragitto da Ginevra ad Assergi in meno tempo di quento impiegherebbe la luce (nel vuoto assoluto) a compiere lo stesso tragitto. Se fosse vero (ed è un se grosso come tutto l’universo, per ora), questo fatto comporterebbe un ripensamento globale di come pensiamo che le cose vadano nel mondo dell’inifinitamente piccolo (la cosiddetta “teoria standard”), ma anche in quello dell’infinitamente grande (dimensioni dell’universo, orizzonte degli eventi ecc.), e perfino nei fondamenti stessi della logica del pensiero (ne verrebbe leso il principio di causalità, che afferma che un effetto deve precedere temporalmente la causa): questo perché costringerebbe in qualche modo a “ripensare” la teoria einteiniana della relatività ristretta (e forse anche di quella generale), che considera la velocità della luce nel vuoto non raggiungibile (attenzione, la teoria matematica che sta sotto, però, non vieta che “qualcosa” possa andare a velocità maggiori di quella della luce, solo che in questo caso quel “qualcosa” avrebbe una massa rappresentata da un numero “immaginario”, il che dal punto di vista fisico non si sa come tradurre…).
Ora, naturalmente, spetta ad altri laboratori cercare di riprodurre l’esperimento italo-svizzero, perché può darsi che le misurazioni siano viziate da qualche difetto che non è stato preso in considerazione: d’altronde le misure in gioco sono talmente piccole e/o grandi (732 km circa la distanza, 60,7 ns – miliardesimi di secondo – l’“anticipo” dei neutrini rispetto alla luce), che anche un piccolissimo errore di misura potrebbe avere conseguenze catastrofiche sul risultato. Finché non ci saranno esperiementi “indipendenti” che diano risultati analoghi, è bene dunque sospendere il giudizio, e non indulgere a trionfalismi tipo quelli del comunicato della Gelmini (“esperimento storico”, “evento che cambierà il volto della fisica moderna”, “vittoria epocale”) che, quando non sono fuori luogo in ambito scientifico, danno la falsa convinzione che sia già stabilito e accertato che i neutrini viaggino più veloci della luce, quando, come ho cercato di spiegare, da un simile accertamento si è ancora ben lontani.
Chiudo il post invitandovi a prendere visione di uno splendido filmato interattivo che fa ben vedere i rapporti tra le diverse misure dell’inifinitamente grande e dell’infinitamente piccolo e con una citazione (che circolarmente si ricollega a quella di Leopardi all’inizio) di uno dei miei autori preferiti, che è comparso spesso in queste pagine.
«…we ourselves are the infinitely small and the infinitely great; and we are the path between the two.» [… noi stessi siamo l’inifinitamente piccolo e l’infinitamente grande; e sempre noi siamo il sentiero che li unisce.]
(Kahlil Gibran, The Wanderer)
Postilla: per chi volesse saperne di più dell’esperimento sulla velocità dei neutrini, ma anche della fisica in genere, consiglio l’ottimo blog di Marco Delmastro, un fisico che ha lavorato per lungo tempo a Ginevra ed è soprattutto un eccellente divulgatore: pensate che è riuscito a spiegare la fisica moderna al suo cane Oliver!
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* Qui, però, toccherebbe aprire una lunga parentesi, e io lo faccio volentieri: Democrito, pensatore greco vissuto tra il IV e il V secolo p.e.v., aveva già teorizzato l’esistenza di particelle infinitesime, gli “atomi”, costituenti ultimi della materia, pur senza avere a disposizione il microscopio (lo seguì Lucrezio, parlando dei “semi delle cose”); e Aristarco di Samo, nel III secolo p.e.v., aveva già teorizzato che fosse la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa, e non aveva a disposizione il cannocchiale. Con questo intendo sottolineare il fatto che talvolta non è necessario “vedere” (con gli occhi naturali o con quelli artificiali degli strumenti) per “sapere la verità”: è sufficiente avere la capacità di pensare al di fuori degli schemi. Fatto sta, comunque, che tanto la teoria atomistica quanto quella eliocentrica vennero ferocemente avversate dal cristianesimo a partire dal II-III secolo, quando cioè da religione si trasformò in movimento politico fondamentalista, totalizzante e assolutistico.
** Poi, certo, sulle sue osservazioni aveva costruito una teoria, che confermava in tutto e per tutto quello che già Copernico aveva detto; ma forse è proprio quello che alla Chiesa non va mai giù: che si possa dai fatti e con i fatti dimostrare che spesso ha torto, ma questo è tutto un altro discorso…
*** Una delle “perle” contenute nel comunicato del Ministero è che sia stato costruito un “tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento”. La cosa ha scatenato l’ilarità degli addetti ai lavori e anche dei non addetti (su Twitter è stato un florilegio di battute, facilmente reperibili sotto l’hashtag #tunnelgelmini), dato che un tunnel di 732 km è qualcosa che allo stato attuale non è nemmeno immaginabile e certamente il suo costo sarebbe un po’ di più dei 45 milioni di euro ricordati nello stesso comunicato ministeriale.
Un nuovo elemento…
È stato scoperto, da un gruppo di fisici dell’Università di Stoccolma, un nuovo elemento, il più pesante finora conosciuto; è stato chiamato temporanemente “amministratoro”. Non ha protoni né elettroni, e quindi gli viene associato il numero atomico 0; nel nucleo sono però presenti un neutrone, 15 assistenti neutroni, 70 vice-neutroni e 161 assistenti vice-neutroni, con una massa atomica, dunque, di 247. Queste 247 particelle sono tenute insieme da una forza causata dal continuo intervento di una speciale classe di particelle denominate “elettori idioti”.
Non avendo elettroni, l’amministratoro è inerte, ma può essere rilevato chimicamente, dato che rallenta ogni reazione nella quale esso è presente. Secondo gli scopritori, una minima quantità di amministratoro, aggiunta a una qualsiasi processo politico, lo rallenta di un fattore pari a circa 1 000 000.
L’amministratoro ha una emi-vita di circa due-tre anni, dopo i quali però non decade come fanno normalmente tutti gli altri elementi radioattivi: esso, invece, subisce una trasformazione nucleare molto complessa, chiamata “riorganizzazione”. In questo processo, ancora in verità poco comprensibile, gli assistenti neutroni, i vice-neutroni e gli assistenti vice-neutroni sembrano scambiarsi di posto. I risultati di alcuni esperimenti indicano, inoltre, che dopo ogni “riorganizzazione” la massa atomica dell’amministratoro aumenta (cioè aumentano assistenti e vice…).
Altri risultati ottenuti in laboratori diversi sembrano indicare la presenza dell’amministratoro nella nostra atmosfera, e la sua concentrazione massima in luoghi particolari quali i governi, le grandi aziende, gli ospedali e le università.
Gli scienziati sottolineano che l’amministratoro è tossico a ogni livello di concentrazione e che può distruggere ogni reazione positiva nella quale è presente.
Si stanno facendo tentativi per determinare come l’amministratoro possa essere controllato per prevenire danni irreversibili, ma i risultati, finora, non sono affatto promettenti.
Carl Friedrich Gauss
Mauro e il Carnevale della Fisica
Cari amici, qualche giorno fa l'amica Annarita ha ospitato la quinta edizione del Carnevale della Fisica, che mi vede presente con la storia (che avete potuto leggere su queste pagine) di Ettore Majorana e con la segnalazione del post, anche questo già qui pubblicato, su Paul Erdős.
Ovviamente non posso che ringraziare calorosamente Annarita e invitare voi a leggere il post sul Carnevale…
Scomparsa di un fisico siciliano – 2ª parte
L’attività da fisico
Nel gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”, Fermi è “il Papa”; Rasetti, il collaboratore più anziano, è “il Cardinale vicario”; Segrè è “il Basilisco” per la sua ironia pungente; a Majorana tocca l’appellativo di “Grande inquisitore”, per la sua mente critica e acuta, priva di complessi nei confronti di chiunque. Ettore parla poco e scherza anche meno: solitario più per natura che per scelta. Sembra ai colleghi come oppresso da un oscuro presagio. Taciturno, quasi appartato dagli altri , lascia che a parlare per lui siano i numeri.
(2 – continua)
Nella foto in testa, i ragazzi di via Panisperna nel 1934; da sinistra a destra: Oscar D'Agostino, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi. Ettore Majorana aveva già abbandonato il gruppo.
Scomparsa di un fisico siciliano* – 1ª parte
(continua)
* Il titolo del post è “copiato” (volontariamente) dal titolo del film di Mario Martone, Morte di un matematico napoletano, dedicato agli ultimi giorni di vita del matematico partenopeo Renato Caccioppoli, la cui figura a me ricorda molto quella di Ettore Majorana: due persone geniali nel loro ambito di attività, ma scontratesi a un certo punto della loro vita con pesanti problemi di socializzazione che li hanno portati alla volontaria scomparsa.
Breve storia delle unità di misura
L'amica Annarita (bontà sua!) mi ha chiesto di collaborare con un mio articolo al prossimo Carnevale della Fisica: un'altra incombenza, dopo il Carnevale della Matematica, ma come sapete non so dire di no quando si tratta di scienza, e così eccomi qui, ad accompagnarvi in una veloce cavalcata attraverso la storia delle unità di misura, con un paio di chicche umoristiche alla fine…
Una delle differenze principali tra la vita ai tempi d’oggi e quella dei nostri progenitori, oltre naturalmente ai numerosi vantaggi offerti dallo sviluppo della tecnologia, sta indubbiamente nei cambiamenti avvenuti nel nostro modo di viaggiare.
Tutti coloro che si mettevano in viaggio, nei secoli scorsi, oltre a sopportarne le fatiche (sia che viaggiassero a piedi che a cavallo, in carrozza o tanto più in nave) e i pericoli (ladroni, sommosse locali, naufragi ecc.), dovevano altresì subire innumerevoli altri fastidi, tra i quali per esempio la necessità di dover cambiare il denaro che portavano con sé o il diverso metodo di misurazione delle stoffe, dei liquidi e di ogni altra cosa occorrente durante il viaggio.
In effetti, ancora fino a metà dell’ottocento le unità di misura non erano affatto uguali in tutto il nostro Paese; anche quando avevano lo stesso nome, indicavano quantità diverse a seconda della provincia e talvolta addirittura del comune, non parlando poi delle misure in auge nei diversi stati!
Tanto per fare qualche esempio, l’unità di misura della superficie si chiamava “tomolo” tanto a Benevento quanto a Catania e a Chieti, ma nel primo caso valeva 3 065 m2, nel secondo 2 144, nel terzo 3 243; se poi si andava a Ferrara bisognava parlare di “biolca” (6 524 m2), a Napoli di “moggio” (3 365 m2), a Brescia di “piò” (3 255 m2); e così via…
Con lo sviluppo dei traffici interni e internazionali, però, si avvertì sempre più l’esigenza di standardizzare in qualche modo l’uso delle unità di misura: non era pensabile che ogni volta venditore e acquirente impiegassero più tempo per calcolare (ognuno secondo la propria moneta e il proprio “regolo”) il prezzo della merce che non per caricarla e portarla a destinazione…
Il 20 marzo 1791 l’Assemblea costituente francese, assumendosi l’enorme merito (uno tra i tanti, per la verità) di disfarsi delle restrizioni del passato per costruire un mondo nuovo, votò una proposta al Governo di prendere accordi con quello d’Inghilterra affinché venisse adottato un sistema universale di misure la cui unità di lunghezza fosse “democraticamente” collegata con la dimensione della Terra e che quindi, come la Terra, potesse essere considerata “di tutti”.
Le vicende politiche del momento non permisero però di dare immediata attuazione alla proposta e soltanto un paio di anni dopo, la Francia (da sola, visto che l’Inghilterra persisteva nel suo “splendido isolamento”) avviò l’importante problema verso una soluzione, incaricando gli astronomi Jean-Baptiste Delambre e Pierre François André Méchain di misurare, con la massima esattezza possibile per quei tempi, la lunghezza di un meridiano terrestre. I due astronomi assolsero il compito fra gli anni 1792 e 1799 (già, ci vollero ben sette anni, ma va tenuto conto che si era ancora nel pieno della lotta tra rivoluzione e controriviluzione…), misurando l’arco di meridiano compreso fra Dunkerque e Barcellona e passante per l’osservatorio di Parigi, dal quale dedussero poi la misura del meridiano terrestre. (L’avventura dei due astronomi è fra l’altro descritta con molta ricchezza e vividità di particolari nell’appassionante romanzo storico Il Meridiano, di Denis Guedj, lo stesso autore di Il teorema del pappagallo.)
La quarantamilionesima parte del meridiano così misurato venne chiamata metro (dal termine greco μέτρον, “misura”) e costituì l’unità di misura della lunghezza, fornendo così la base per le unità di misura anche della superficie (il metro quadrato), del volume (il metro cubo) e perfino della massa, per la quale venne adottato il termine di grammo (la massa di un centimetro cubo di acqua pura a 4 °C).
Anche quella misura, però, era in effetti poco “democratica” (nonostante le intenzioni dei suoi propugnatori), dato che non si capisce perché adottare il meridiano passante per Parigi e non quello, ad esempio, passante per Pechino o per New York (che sono di lunghezza diversa, non essendo la Terra una sfera perfetta).
Quando nel 1905 Albert Einstein ipotizzò, con la teoria della relatività ristretta, che la velocità della luce nel vuoto fosse costante rispetto a tutti gli osservatori, sia fermi che in qualunque tipo di moto e tale ipotesi venne poi verificata come valida da tutti gli esperimenti successivi, si decise di assumere come “metro” la frazione 1/299 792 458 dello spazio percorso in un secondo nel vuoto da una radiazione luminosa (o elettromagnetica, che è la stessa cosa). In questo modo l’unità di misura della lunghezza e le sue derivate vennero rese effettivamente “democratiche”, cioè non dipendenti da alcun osservatore.
Un discorso a parte merita poi la scelta dell’unità di misura per il tempo: fin dall’antichità l’uomo aveva a disposizione l’alternarsi del giorno e della notte e quello delle stagioni, ma questo poteva servire per misurare intervalli di tempo lunghi; per i piccoli intervalli si decise di scegliere il giorno solare medio, definito come il tempo medio (calcolato sull’arco di un anno) che la Terra impiega per ruotare una volta su se stessa. Da questo moto rotatorio si trasse l’unità di misura dell’intervallo di tempo, cioè il secondo, definito come la frazione 1/86 400 del giorno solare medio.
Di nuovo, però, tale unità risultò inadeguata (ma soprattutto incostante) per le misure di alta precisione, perché la Terra in realtà non ruota in modo regolare e uniforme, a causa delle maree, dei venti, dei terremoti e di altri fenomeni anche esterni al pianeta. Per porre rimedio a tale inconveniente si risolse di scegliere un lasso di tempo riferito al moto orbitale della Terra intorno al Sole, che si riteneva più regolare. Si decise quindi di definire “secondo” la frazione 1/31 556 925,97474 dell’intervallo di tempo fra due passaggi consecutivi del Sole all’equinozio primaverile. Anche questo intervallo di tempo, pur’esso dimostratosi incostante, non coincide con il secondo di oggi. A causa di effetti cumulativi dei piccoli errori dovuti al lieve rallentamento del movimento di rivoluzione della Terra, si andava accumulando progressivamente una differenza che ogni qualche anno doveva essere corretta aggiungendo un secondo agli orologi segnatempo ufficiali.
Nel 1967, per migliorare la precisione delle misurazioni del tempo, si decise di adottare un nuovo secondo campione, basato sulle caratteristiche vibrazioni di frequenza di un atomo particolare, quello del cesio (per la precisione dell’isotopo 133, il 133Cs) il quale, opportunamente eccitato, compie oscillazioni che hanno un’ampiezza rigorosamente costante. Oggi, pertanto, il secondo è definito come il tempo che occorre perché si realizzino 9 192 631 770 periodi di oscillazione dell’atomo di Cesio 133. Con questa definizione di unità di misura temporale si possono confrontare intervalli di tempo con una precisione di 1 secondo su 30 000 anni. In questi ultimi anni, con tecniche analoghe, si sono potuti costruire orologi “atomici” che sgarrano di un solo secondo ogni 30 milioni di anni.
Altre unità di misura derivate vennero create (e lo sono in continuazione) a partire da quelle fondamentali, ma esse esulano da questa “breve storia”, pur essendo altrettanto interessanti. Vedremo se sarà il caso di inserirle in un successivo “Carnevale”…
Chiudiamo allora la parte seria dell'articolo ricordando che per i multipli e i sottomultipli delle unità di misura si utilizzano particolari prefissi quali: chilo- (per mille), mega- (per un milione), deci- (diviso dieci) e così via, che si affiancano ai prefissi del linguaggio standard, come tri- (moltiplicato tre) semi- (diviso due) ecc.
E terminiamo con un paio di note umoristiche.
La prima riguarda i simboli utilizzati per le unità di misura: quelle che derivano il proprio nome da quello di scienziati devono essere scritte con l’iniziale minuscola, quindi si deve scrivere: newton, volt, ampère ecc., mentre i simboli corrispondenti vanno scritti con lettere maiuscole: N, V, A ecc. Le unità che non hanno nomi derivanti da quelli di persone, come metro, secondo, grammo ecc. hanno i simboli scritti con lettere minuscole non seguite da un punto: m, s, g (e non mt., sec. o gr. come erroneamente spesso si legge scritto!); fa eccezione il litro, per il quale è consentito l’uso della maiuscola L per evitare di confondere la “elle” minuscola con il numero 1.
La proposta di sostituire la “elle” minuscola con quella maiuscola condusse alcuni buontemponi a organizzare uno scherzo al quale molti scienziati, anche famosi, abboccarono. La regola adottata dal Comitato internazionale dei pesi e delle misure prescriveva, come appena detto, che le lettere maiuscole potessero essere utilizzate soltanto se prendevano il loro nome da quello di uno scienziato. Kenneth Woolner (1934-2008), un fisico dell'Università di Waterloo (quella in California, non quella in Belgio…), decise così, per rispettare totalmente i dettami del Comitato, di far nascere (già morto, poverino…) Claude Emile Jean-Baptiste Litre (1716-1778), un personaggio poco noto agli storici della scienza, che però si diceva avesse collaborato con i maggiori chimici del suo tempo, stranamente escluso Lavoisier, che pure era il più famoso…
L’opera di questo fantomatico scienziato venne presentata su una rivista internazionale di didattica della chimica nel 1978; immediatamente dopo, lo stesso autore dell’articolo si affrettò a rivelare che si trattava di uno scherzo, ma era ormai troppo tardi, perché la storia si era rapidamente diffusa nel mondo scientifico. Si venne poi a scoprire che una beffa analoga era stata pubblicata qualche anno prima (non avendo però ricevuto analoga eco) in un articolo comparso sulla rivista tecnica “Standard Engineering”, che riportava la storia (totalmente inventata, va da sé) di un certo Giuseppe Litroni, uno scienziato chimico italiano emigrato in Francia perché, si riferiva, era stato minacciato dalla mafia…
La seconda nota umoristica riguarda i prefissi di cui si diceva prima: è vero che i prefissi moltiplicano o dividono le quantità che li seguono, ma ciò vale soltanto per le quantità fisiche! Nel linguaggio corrente, si tenga sempre bene a mente che 1 megafono non è uguale a 1 000 000 000 000 di microfoni, che 50 centenari (né 500 millenari, quanto a questo!) non fanno 1 seminario e che 4 di questi non fanno 1 binario, che 3,333… tridenti non fanno 1 decadente, che 333,333… trifogli non fanno 1 millefoglie, che 1 decalogo non è fatto di 5 dialoghi e nemmeno di 10 monologhi, che 2 monogrammi non realizzano 1 diagramma, che 3 quadricipiti non hanno la forza di 4 tricipiti né quella di 6 bicipiti, che tra decano e ottano non c'è una proporzione 10:8, che un milione di micrococchi non ci permettono di mangiare un cocco e così via, prefisseggiando alla rinfusa!
I paradossi – 2 – le scienze
Ricordate il filosofo con il quale abbiamo iniziato questa carrellata sui paradossi? Era il cretese Epimenide, vissuto nel VI secolo p.e.v. Circa un secolo dopo, a Elea (l’attuale Velia in provincia di Salerno) visse un altro filosofo, Zenone, della scuola eleatica appunto. Questi era davvero un bel tomo che si divertiva a creare paradossi atti a dimostrare l’inesistenza di tutto ciò che le persone normali vedono, osservano e sperimentano.
Di paradossi ne ideò una quarantina, almeno a giudicare dalle narrazioni di Platone, Aristotele e Diogene Laerzio; soltanto alcuni sono però giunti fino a noi, anche se è facile pensare che quelli perduti fossero soltanto rielaborazioni di quelli a noi noti.
Ma procediamo con ordine. Zenone era discepolo (nonché “amante”, fisico e spirituale secondo taluni storici) di Parmenide, quello che negava la possibilità del “divenire” e assolutizzava invece la presenza dell’“essere”, in opposizione a Eraclito, per il quale, al contrario, “tutto si trasforma” e “nello stesso fiume non ti bagnerai due volte” (si veda qui un mio post di molto tempo fa, a proposito di questa diatriba).
Insomma, Zenone, per dar corpo alla teoria di Parmenide sull’impossibilità del divenire, decise di dimostrare innanzitutto l’inesistenza dello spazio e del tempo e l’impossibilità del moto. Il più famoso paradosso di Zenone è sicuramente quello che riguarda pié veloce Achille e la tartaruga. In una corsa tra questi due personaggi, se Achille concede alla tartaruga un qualunque vantaggio, non riuscirà mai a raggiungerla, perché deve prima percorrere la distanza che le ha concesso di vantaggio, ma nel frattempo essa ha percorso un nuovo tratto, che Achille dovrà colmare, e così via.
L’essenza del ragionamento zenoniano è presente in forma più pura in altri due paradossi simmetrici: è impossibile sia partire che arrivare. Infatti, per arrivare in un luogo è necessario arrivare prima a metà della distanza, poi a metà del percorso rimanente, e così via. E per partire è necessario percorrere qualche distanza, ma prima si deve percorrerne la metà, e prima ancora metà della sua metà, e così via. Zenone mostrò infine che è impossibile essere in viaggio, usando anche in questo caso una efficace immagine letteraria: una freccia non può volare. Infatti in ogni istante essa è ferma, mentre il moto è una successione di movimenti.
Quest’ultimo paradosso è complementare ai tre precedenti. Mentre quelli si basano sull’infinita divisibilità di spazio e tempo, questo si appella all’indivisibilità di punti e istanti. In tal modo gli argomenti eleatici della impossibilità del moto coprivano entrambe le possibilità e permettevano di evitare assunzioni metafisiche sulla natura dello spazio e del tempo.
Questi argomenti erano ovviamente noti ad Aristotele, che nella Metafisica dichiara che non si può dimostrare o definire tutto, perché in tal caso si procederebbe all’infinito e non ci sarebbe nessuna dimostrazione o definizione. La via d’uscita proposta da Aristotele, e adottata dai matematici a partire da Euclide, è il metodo assiomatico. In termini chiarificatori: le dimostrazioni vanno basate su asserzioni non dimostrate (gli assiomi) e le definizioni su termini non definiti (le nozioni primitive).
Per quanto riguarda invece i paradossi di Zenone sulla continuità dello spazio e del tempo, Aristotele pensava che la soluzione risiedesse in una distinzione fra infinito attuale e potenziale. Nella Fisica egli sostenne infatti che l’infinita divisibilità potenziale di un segmento non è contradditoria. Solo una infinità attuale di punti non si può percorrere fisicamente. In effetti sostenne che una somma di infiniti addendi non nulli può essere finita. Ovvero, come dicono i matematici oggi, che la somma di una serie infinita può convergere ad un valore finito. E Archimede era ben riuscito a calcolare le somme di alcune serie infinite, per ottenere i suoi famosi risultati su aree e volumi, come l’area del cerchio, ad esempio.
Fu però Gregorio di San Vincenzo ad introdurre per primo, nell’Opus geometricum, il concetto di convergenza di una serie infinita come limite delle somme parziali. Egli applicò immediatamente la nuova nozione al paradosso di Zenone (quello sull’impossibilità di arrivare in qualsiasi luogo), sostenendo che l’uguaglianza
½ + ¼ + ⅛ + … = 1
ne costituiva la soluzione. La somma “finita” della serie “infinita” mostra infatti che sommando ogni volta la metà dello spazio rimanente, si arriva al traguardo, anche se gli addendi sono infiniti…
Sempre proposito di convergenza e divergenza di serie infinite non si può sottacere un “paradosso” veramente intrigante: si prenda la metà di un ramo di un’iperbole (la cui equazione è y = 1/x, prendendo la parte per x ≥ 1) e la si faccia ruotare intorno all’asse delle ascisse. La figura che così si ottiene:
detta anche “tromba di Torricelli” o “tromba di Gabriele” ha una caratteristica davvero singolare: questo solido ha infatti un volume finito, ma una superficie esterna infinita! Il che significa, pensandolo come un recipiente, che lo si potrebbe riempire di vernice, ma non si potrebbe pitturarlo! O, pensandolo come una torta, che si potrebbe mangiarla intera, ma non a fette!
In effetti, l’infinitezza della superficie dipende dalla non convergenza della somma della serie
Mentre la finitezza del suo volume dipende dalla convergenza della somma della serie
Grazie alla tecnica del calcolo infinitesimale, che consiste nell’espandere funzioni in serie, e poi differenziarle o integrarle termine a termine, la nozione di somma infinita cessò poco a poco di essere considerata paradossale, e gradualmente si accettò l’idea che potesse corrisponderle un valore finito. Non senza discussioni, però. Le più accese delle quali furono generate dalla serie alternata
1 – 1 + 1 – 1 + …
Ridisponendo in modi diversi le parentesi, essa provoca infatti il paradosso alquanto indisponente che
0 = (1 – 1) + (1 – 1) + … = 1 + (–1 + 1) + (–1 + 1) + … = 1…
Il matematico italiano Luigi Guido Grandi andò però oltre, e dalla formula generica per ottenere la somma dei termini delle progressioni geometriche
dedusse, ponendo x = – 1, che
½ = 1 – 1 + 1 – 1 + … !
Leibniz sostenne che questo era effettivamente il vero valore della serie, sulla base del fatto che le somme parziali alternano 1 e 0, e il valore più probabile è dunque la loro media aritmetica. Un ragionamento che, giustamente, egli ammise essere più metafisico che matematico. Aggiungendo, però, che la matematica era comunque più metafisica di quanto si ammettesse…
Eulero, a sua volta, concordò sul fatto che ½ fosse il vero valore della serie, con la diversa motivazione che il ragionamento di Grandi riduceva la serie infinita ad una formula finita, e che questo era il modo corretto di dar senso alle serie infinite. Egli si lasciò però prendere la mano dall’entusiasmo e notò che, ponendo x = 2 nella formula precedente, si ottiene l’ancor più eccitante paradosso:
– 1 = 1 + 2 + 4 + 8 + …
in cui la somma di infiniti numeri positivi è un numero negativo!
L’idea di Eulero di ridurre le serie infinite a formule finite era ambigua. Una stessa serie può infatti corrispondere a più formule differenti, come mostra
da cui si può dedurre il valore 1/3 per la solita serie alternata. Questi argomenti, oggi incredibili, sono naturalmente da valutare in prospettiva. I paradossi da essi generati permisero però di arrivare alla definizione precisa di somma di una serie, come limite delle somme parziali, e al convincimento che le ambiguità precedenti derivano appunto dal voler assegnare una somma definita a serie divergenti (cioè tendenti a ±∞, ovvero non tendenti a un valore fisso).
E non si pensi che i paradossi siano una peculiarità della matematica, stante il fatto che alcuni pensano che essa sia soltanto una creazione della mente. Che lo spazio sia un concetto relativo credo possiamo essere tutti d’accordo, colti e meno colti, intelligenti o meno. Siamo, però, molto meno disposti ad accettare la relatività del tempo, che fino all’Ottocento anche la scienza considerava non solo oggettivo, ma uniforme e universale. Le cose cambiarono nel 1905, quando Albert Einstein mostrò che una nozione di tempo misurata da orologi identici non può essere né uniforme, né universale.
Lo scorrere del tempo individuale di un osservatore, misurato dal suo orologio, appare infatti agli altri osservatori tanto più lento quanto più la sua velocità rispetto a essi è prossima a quella della luce. E i vari tempi individuali si possono sincronizzare soltanto parzialmente. In particolare, due eventi non legati da un rapporto causa-effetto possono apparire in un certo ordine temporale rispetto a un osservatore, e nell’ordine opposto rispetto a un altro.
Già nel suo articolo originario, Einstein si accorse che questo stato di cose genera un vero e proprio paradosso, che è forse il più noto fra tutti quelli della fisica moderna. Eccolo nella sua formulazione originaria, in Zur Elektrodynamik bewegter Körper (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento), il lavoro che gli fruttò il premio Nobel nel 1921:
«Se si trovano in A due orologi sincroni e si muove uno di essi con velocità costante v su una curva chiusa, finché ritorna in A dopo t secondi, quest’ultimo orologio al suo arrivo in A si trova, rispetto all’orologio rimasto immobile, in ritardo di
secondi. Dunque, un orologio che si trovi all’equatore deve procedere un po’ più lentamente che un orologio, uguale e posto nelle stesse condizioni, che si trovi a un polo.»
Se si sostituiscono i due orologi con due gemelli si ottiene l’ancor più sorprendente paradosso che se uno dei due parte per un viaggio, al suo ritorno è più giovane di quello che è rimasto. Ovvero, viaggiare aiuta a mantenersi giovani.
Naturalmente, tutto dipende dalla durata del viaggio e dalla sua velocità (e per nulla, come si potrebbe invece immaginare, dalla compagnia o dal paesaggio…). Dalla formuletta di Einstein si ricava, ad esempio, che se uno dei gemelli viaggia ad una velocità (v) pari a quattro quinti di quella della luce (c), il suo viaggio dura circa un terzo di meno dell’attesa del fratello. Dopo un viaggio di quindici anni, dunque, il viaggiatore troverebbe il fratello rimasto a casa più vecchio di lui di cinque anni.
Il paradosso dei gemelli contiene un problema tecnico, per gli addetti ai lavori. Dal principio di relatività dovrebbe infatti discendere che la situazione è simmetrica per i due gemelli. Dunque anche quello che è rimasto a casa dovrebbe trovare il fratello più vecchio di lui di cinque anni. Questo problema si risolve dimostrando che in realtà i sistemi di riferimento dei due gemelli non sono equivalenti, e che le distanze spazio-temporali percorse da ciascuno nel sistema di riferimento dell’altro non sono uguali.
La dilatazione dei tempi per i viaggiatori sarà paradossale, ma non per questo è meno reale. Le conferme sperimentali sono ormai innumerevoli e dimostrano che effettivamente il tempo scorre diversamente per osservatori diversi.
Naturalmente, la dilatazione dei tempi non è l’unico effetto paradossale prodotto da un aumento di velocità fino a valori elevati. Sempre Einstein dimostrò che a velocità comparabili con quelle della luce si ha una dilatazione della massa e una contrazione della lunghezza nel senso del moto. Vale a dire che viaggiando, oltre a mantenersi giovani, si aumenta di peso, però ci si snellisce…
(2 – Fine. La puntata precedente è stata postata qui)
Gregorio Ricci Curbastro
Gregorio Ricci Curbastro (Lugo, 12 gennaio 1853 – Bologna, 6 agosto 1925) è stato un matematico italiano.
Nasce da famiglia borghese benestante e rigidamente cattolica, tanto che quando nell’estate del 1857, due anni prima del Plebiscito che termina la dominazione dello Stato della Chiesa, Pio IX si reca in visita a Lugo, il papa trascorre l’unica notte in città nel palazzo Ricci Curbastro, in casa di Gregorio. Il padre Antonio, conosciuto ingegnere in tutta la provincia ravennate, e la madre hanno già in testa l’idea di come i loro figli avranno gli approcci agli studi. Sia Gregorio sia suo fratello Domenico ricevono, prima di entrare all’università, un’istruzione privata, attraverso istitutori che a domicilio li seguono in un percorso di insegnamento mirato e dettagliato.
Compie privatamente gli studi liceali a Lugo e si dimostra subito un allievo più che brillante, tanto da meritare a soli 16 anni, contro i 18 prescritti, l’iscrizione al corso filosofico-matematico della Sapienza di Roma. L’anno successivo lo colgono i fatti di Porta Pia del 1870. Le vicende politiche turbano il padre e Gregorio viene richiamato a Lugo. Ma la spinta al sapere è troppo urgente in lui e nel 1872 si iscrive all’Università di Bologna. Qui rimane un anno, poi viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove incontra due maestri insigni, Enrico Betti e Ulisse Dini.
Nel 1875 Gregorio ottiene la laurea in Scienze Fisiche e Matematiche. Nel 1877, grazie a una borsa di studio, si reca in Germania presso la Technische Hochschule di Monaco di Baviera; lì conosce Felix Klein e Alexander von Brill e partecipa alle loro conferenze, conquistando le loro rispettive stime. Va detto che non è Klein il matematico "scatenante" gli studi di Ricci Curbastro, ma lo sono maggiormente Lipschitz, Christoffel e Riemann. Quest’ultimo dà l’input a Ricci Curbastro per un approfondito studio della geometria "riemanniana".
Tornato a Pisa, dopo un anno in Germania pieno di incontri e influenze culturali, si mette subito al lavoro, dedicando gran parte dei suoi studi al "calcolo differenziale assoluto". Si rende subito conto dell’importanza che il suo lavoro può avere per la fisica matematica e soprattutto per le teorie dell’elasticità e del calore. Attira così l’attenzione di altri giovani matematici che si ritrovano con lui immediatamente in piena collaborazione; tra questi Tullio Levi Civita, che sarà poi il validissimo collaboratore di spiccate capacità, quello che svilupperà il calcolo tensoriale, la generalizzazione multidimensionale del calcolo vettoriale.
Sui muri della sua casa natale è affissa una targa commemorativa che recita:
"Diede alla scienza il calcolo differenziale assoluto, strumento indispensabile per la teoria della relatività generale, visione nuova dell’universo"
Il calcolo differenziale assoluto ebbe, in effetti, un ruolo determinante per sviluppare la teoria della relatività generale, come risulta da una lettera scritta da Albert Einstein alla nipote di Ricci Curbastro. Sono note le "scarse" capacità matematiche del genio di Ulm, tanto che in una lettera al matematico svizzero-ungherese Grossmann, suo amico e collega a Zurigo, Einstein scrisse: "Per favore, aiutami tu, senno’ divento pazzo!" Grossmann lo aiuta, portando alla sua attenzione l’esistenza del calcolo di Ricci. Einstein lo studia, ma non ne ricava un granché, tanto che approda nel 1914, a una prima versione della teoria della gravitazione, incompleta e contestata. Tra il 1914 e i primi mesi del ’15, Einstein intrattiene quindi un fitto carteggio scientifico con Tullio Levi-Civita, il quale, con rigorosi argomenti scientifici, gli illustra la potenza della teoria di Ricci Curbastro, gli contesta brillantemente i limiti della rappresentazione matematica della sua teoria e lo indirizza verso la soluzione del problema. È dunque grazie al calcolo tensoriale che la teoria della relatività generale riceve l’approvazione pressoché unanime del mondo scientifico.
Ricci-Curbastro ricevette molti onori per i suoi contributi, sebbene si possa dire che l’importanza del suo lavoro non fu compresa pienamente dall’ambiente matematico italiano all’epoca in cui la produsse, ma soltanto più tardi, soprattutto grazie all’applicazione dei suoi metodi da parte di Einstein.
Un’ultima considerazione su questo grande personaggio di cui pochi sanno, oltre noi "addetti ai lavori". Nel 1923, quando ormai Ricci Curbastro è una personalità nota nel mondo accademico e Einstein uno scienziato di cui tutto il mondo parla, il nostro legge sul quotidiano cattolico Il Popolo Veneto un articolo farneticante nel quale si tessono le lodi di un sedicente scienziato, tal prof. dott. Emilio Ungania, che, con motivazioni che stavano a metà tra la magia e la superstizione religiosa, contestava le tesi di Einstein. Quel che più colpisce Gregorio sono le motivazioni della contestazione delle teorie scientifiche di Einstein, motivazioni totalmente fondate su preconcetti di razza e di religione (non dimentichiamo che l’esplosione dell’antisemitismo nazista e fascista è alle porte), che portano l’articolista ad appoggiare decisamente le tesi anti-relativistiche di Ungania. Ricci Curbastro risponde con una lettera al giornale, misurata nei toni, tipici del gentiluomo di campagna quale egli era, ma durissima nei contenuti, che termina con una massima che non potrebbe essere oggi più attuale:
"Nelle vostre ricerche andate avanti senza preconcetti, siano pure quelli dettati dai vostri convincimenti religiosi, certi come dovete essere che dai risultati ultimi dei vostri studi questi non potranno mai essere contraddetti."
La famiglia Curie
Maria Skłodowska-Curie (Varsavia, 7 novembre 1867 – Sancellemoz, 4 luglio 1934), è stata una scienziata polacca.
Pierre Curie (Parigi, 15 maggio 1859 – Parigi, 19 aprile 1906) è stato un fisico francese, marito della precedente.
Nel 1903 Maria e Pierre furono insigniti del premio Nobel per la fisica (assieme ad Antoine Henri Becquerel) per la loro scoperta della radioattività naturale; nel 1911 a Maria venne attribuito il Nobel per la chimica per i suoi lavori sul radio.
Irène Joliot-Curie (Parigi, 12 settembre 1897 – Parigi, 17 marzo 1956) è stata una chimica francese, figlia di Maria e Pierre.
Jean Frédéric Joliot (Parigi, 19 marzo 1900 – Parigi, 14 agosto 1958) è stato un fisico francese, marito di Irène. Assunse il cognome Curie in aggiunta al proprio per onorare i suoceri.
Irène e Frédéric vennero insigniti nel 1935 del Premio Nobel per la chimica per la scoperta della radioattività artificiale.
Cinque premi Nobel nella stessa famiglia…