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Spigolature – Del revisionismo storico

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spigoli
Revisionismo (dal dizionario De Mauro): orientamento storiografico o ideologico tendente a reinterpretare gli eventi di un periodo storico invalidando tesi e notizie consolidate.

La storia, in quanto scienza umana, quando vede applicato il metodo scientifico alla propria materia è sostanzialmente revisionista. Il revisionismo storico, però, per essere accettabile e accettato a livello scientifico, deve essere basato, per esempio, su nuove fonti, o su nuovi metodi di indagine; non può essere basato sulla rimasticatura o, addirittura, sulla falsificazione di ciò che è storicamente accertato.

Ebbene, da qualche anno è in corso, da parte della Chiesa cattolica, un "processo revisionistico" della storia, avente quale obiettivo la negazione di 500 anni di crimini contro l’umanità: crociate, persecuzione e sterminio di "streghe" ed "eretici", di ebrei, di scienziati ecc.

Poiché tali resoconti storici sono ampiamente documentati e non se ne può negare l’esistenza, la strategia cattolica tende a "reinterpretare" alcuni di questi fatti come "diatribe medioevali". Ciò che preme ai nuovi inquisitori dell’informazione è di poter far apparire del tutto marginale il ruolo del clero dell’epoca, che in realtà era il principale mandante.

Certo, a molte autorità civili medioevali poteva far comodo eliminare fisicamente gli eretici, che erano spesso insieme anche oppositori politici, o quantomeno un "pericoloso" esempio di libertà individuale in un’era di obbedienza assoluta (non a caso "eresia" proviene dal greco αἵρεσις, "scegliere") ma ciò non diminuisce la responsabilità storica e morale della Chiesa cattolica, tant’è che il passato papa Giovanni Paolo II sentì il bisogno di chiedere perdono per queste gravi colpe, sebbene un po’ troppo frettolosamente e senza particolari approfondimenti.

Anzi, proprio a partire da tale richiesta di perdono, che risale al 2000, alcuni apologeti cattolici hanno iniziato a compiere l’opera di revisionismo che ha, ovviamente, trovato l’immancabile complicità della RAI.

Un tristissimo episodio di tale disinformazione fu la puntata di Voyager (l’infausta tramissione del falso documentarista e falsissimo divulgatore Roberto Giacobbo) del 16 febbraio 2005, nella quale si è avuto il coraggio di asserire che nel 1209 a Béziers (Francia) non ci sarebbe stata alcuna spedizione dell’Inquisizione, ma solo un "regolamento di conti" feudale, per il quale "nessuno deve chiedere scusa".

Quando è, invece, noto (ovverossia storicamente accertato) che a compiere l’assedio e il massacro di 20 000 abitanti della città, colpevoli di ospitare una vasta comunità catara (o albigese, comunque di persone che si rifacevano dottrinariamente alle origini del cristianesimo, contro ogni sovrastruttura di potere romano) fu il legato papale Arnauld Amaury, che, in una lettera scritta a papa Innocenzo III, il cui originale si trova (pensate un po’, in bella vista) nella biblioteca vaticana, si vanta di quanto era stato fatto, usando le seguenti testuali parole:

«Les nôtres, n’épargnant ni le sang, ni le sexe, ni l’âge, ont fait périr par l’épée environ 20 000 personnes et, après un énorme massacre des ennemis, toute la cité a été pillée et brûlée. La vengeance divine a fait merveille.»

(I nostri, non rispettando né rango, né sesso, né età, passarono a fil di spada circa ventimila persone; a questa carneficina di nemici seguì il saccheggio e l’incendio della città intera. La vendetta divina ha compiuto meraviglie.)

Pare, inoltre, che a un soldato che gli chiedeva come fare per riconoscere i catari dai fedeli romani, lo stesso abate così avesse risposto:

«Uccideteli tutti. Dio saprà riconoscere i suoi!»

Tanto per la chiarezza storica.

Written by matemauro

16-02-2010 at 15:02

Pubblicato su cultura, revisionismo, storia

Metti, una sera a cena (cit.)

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Nel raffinato ambiente da gourmet di amici splinderiani, ieri sera si è svolto un avvenimento eno-gastronomico di notevole rilievo e spessore.

Dopo qualche facezia scambiata nell’attesa che arrivassero tutti i commensali, ci siamo seduti a tavola ed è arrivato l’antipasto:

foto1"Chiodini caramellati e tacchinella al marsala in cialda di parmigiano", accompagnati da

foto2"60" della tenuta Casteani. È seguito il primo piatto

foto3"Tagliolini all’uovo con crema di carote e taleggio su gelée di peperone", accompagnati da

foto4"Terre di Casteani". Una breve attesa necessaria anche a far riposare le nostre papille gustative, e poi il secondo piatto

foto5"Filetto all’Armagnac su salsa bernese e chips con patè di olive", accompagnato a sua volta da
foto6"Brunello di Montalcino – Fattoria Allegrini", debitamente scaraffato e messo a respirare in decanter qualche ora prima. Infine, è seguito il dolce

foto7"Zuccotto semifreddo alla ricotta", accompagnato da

foto8"Passito liquoroso di Pantelleria".

Un doveroso, sentito omaggio al nostro ospite, nonché chef sopraffino Marco, davvero come dissi in un sonetto tempo fa, esperto nella difficilissima arte culinaria. A Marco i complimenti per l’inventiva e l’accostamento dei sapori, la qualità dei cibi e la perfetta tempistica della messa in tavola!

foto9Un doveroso e caloroso ringraziamento anche a Flavio, espertissimo autore di una scelta dei vini che davvero più precisa non avrebbe potuto essere.

foto10La serata si è chiusa con il vostro umile scrivano che ha recitato alcuni dei suoi sonetti romaneschi, con gli altri che ripescavano ricordi di luoghi e situazioni attinenti all’argomento.

foto11Qui sopra Gianfranco segue attentamente la mia lettura, così come

foto12
Nico e
foto13
Paolo.

Grazie a tutti gli intervenuti per la splendida serata!

Written by matemauro

14-02-2010 at 17:35

Pubblicato su amici, cucina, cultura, splinder

Mike Bongiorno, la scomparsa di un “mito”

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Proprio nei giorni in cui alla Mostra del cinema di Venezia veniva presentato il discusso e censurato Videocracy di Erik Gandini, un’analisi sul ruolo giocato dalla televisione nell’influenzare la società e la cultura italiana, moriva colui che ha rappresentato nell’inconscio collettivo l’anima della tv italiana: Mike Bongiorno.

Della nostra tv era il simbolo, con le sue battute, con il suo leit-motiv “Allegria!” che ha contribuito a consolidare il suo personaggio nell’immaginario nazional-popolare, con la sua superficialità. È lui che ha tenuto la gente unita, davanti alla tv, rassicurandola, ed è sempre lui che ha iniziato ad abbassare il livello culturale degli italiani, bombardandoli di giochi a premi importati dall’America che promettevano sogni e facili guadagni. Un venditore di false speranze. Mentre gli unici che si sono arricchiti spudoratamente, e continuano a farlo, sono stati soltanto quei personaggi che la tv la fanno, e che vi appaiono di continuo.

E non dimentichiamo i doppi sensi e il modo (naturale? artefatto?) in cui trattava le donne: in perfetto stile berlusconiano. Mike Bongiorno è stato un bravo presentatore, il migliore, e di questo gliene dò atto, ma non si può non considerare che, mentre lui si affermava recitando la sua parte utilizzando un linguaggio povero, da terza media, in Italia si stava costruendo un nuovo modello culturale, degradato e svuotato di ogni parvenza di idee (si veda, al riguardo, cosa scrivevo non molto tempo fa…).

Dalla sua bocca sono usciti indicazioni elettorali e consigli dati per lo più a persone anziane bisognose di suggerimenti di persone fidate (ricordate la discesa in campo di Berlusconi nel 1994, con gli spot elettorali gratuiti suoi, della Zanicchi, della Carlucci ecc.?). Di lui la gente si fidava e lo ha dimostrato nel corso del tempo fino al giorno dei funerali: la folla in piazza Duomo accorsa per dare l’ultimo saluto a un personaggio televisivo, come se l’avessero tutti conosciuto di persona, sembrava lì per recitare l’ultimo atto di uno show, tutti sorridenti e salutanti dinanzi alle telecamere, quasi un reality reale, una sorta di The Truman Show trapiantato nel paese di Dante, Manzoni e Pirandello.

Certo, non si può negare che con lui sia morta una parte della tv, e indirettamente una parte della storia d’Italia degli ultimi 30 anni, dominata dalla videocrazia costruita a sua immagine e somiglianza dal magnate dei media nostrani; prima sfruttando il mezzo televisivo, diventato strumento di potere a sua disposizione per imbambolare le masse facendo credere a qualsiasi messaggio passasse attraverso il tubo catodico, anche grazie a personaggi come Bongiorno, e poi facendo diventare la sua realtà la realtà di tutti.

Adesso che è morto questo personaggio simbolo del berlusconismo, ci si potrebbe chiedere: che cosa ci ha lasciato? La mia risposta è: un bel nulla; ha cioè lasciato esattamente il vuoto culturale che ha contribuito a creare. E proprio quel vuoto ha consentito a Berlusconi di raggiungere in pochi mesi un consenso elettorale di massa dal nulla, nel 1994, e poi ripetersi in altre tre elezioni. Ed è sempre da quel vuoto, da quel nulla, che la televisione permette di creare personaggi, falsi miti, star. In quel nulla adesso si stanno creando nuovi disvalori, ancora più bassi di quelli demoliti nel corso di questi decenni. È solo per questo che rimpiangerò questo presentatore, perché la sua scomparsa segna la fine di un’era fatta di modelli televisivi “per famiglie”, consapevole che lo spazio vuoto lasciato sarà riempito da qualcosa di peggio, basato su valori corrotti e pericolosi.

Sono pronto a scommettere che tra le persone presenti ai funerali di Bongiorno la maggioranza di quelle avrà partecipato almeno una volta a un qualche suo programma come pubblico attivo e applaudente. Per questo pubblico è come se oggi fosse morto il loro Pier Paolo Pasolini. Fermamente convinti dell’autonomia di pensiero e della genuinità del loro idolo televisivo. Ma il pericolo per il futuro è che quelle stesse persone continuino a fidarsi, senza interrogarsi su nulla, di qualsiasi personaggio e di qualsiasi messaggio venga loro proposto sugli schermi della videocrazia.

Per finire, riporto un brano dal pamphlet di Umberto Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, pubblicato, pensate un po’, nel 1961, e del quale consiglio la (ri)lettura per la sua capacità profetica nel disegnare ciò che sarebbe divenuta la televisione nei decenni successivi…

«Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.»

Written by matemauro

13-09-2009 at 11:47

Pubblicato su bongiorno, cultura, televisione

Da “Sbucciando la cipolla”, di Günter Grass

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Lei, dalla quale sono sgusciato fuori strillando una domenica, come mi ha sempre assicurato, «sei nato con la camicia…», lei, alla quale sedevo ancora in grembo a quattordici anni, il cocco di mamma, che fin da bambino ha tenuto vivo il suo complesso, lei, alla quale avevo preannunciato, giurato ricchezza e fama, il Sud come terra promessa, facendola sognare a occhi aperti, lei, che mi insegnò a riscuotere in piccole rate i debiti della sua clientela a credito – «Bisogna battere cassa il venerdì, quando resta ancora qualcosa della paga settimanale» -, lei, la mia buona tranquillizzante coscienza, la mia sotterranea cattiva coscienza, lei, alla quale ho procurato preoccupazioni e timori a dozzine, che si moltiplicavano con la fertilità di un roditore, lei, alla quale per la festa della mamma regalai il ferro da stiro elettrico – o era un vaso di cristallo? – con i soldi del riscotitore di debiti, lei, che non volle accompagnarmi alla stazione quando io, lo stupido ragazzetto, diventai soldato di mia volonta – «Ti mandano a morire..» -, lei, che non disse una parola quando nel treno da Colonia ad Amburgo volevo sapere cosa le accadde quando i russi arrivarono con tutta la loro violenza – «Le cose brutte bisogna dimenticarle… » -, lei, dalla quale ho imparato a giocare a skat e che col pollice inumidito contava cartamoneta e tessere annonarie, lei, che con tutte le dita suonava pezzi pianistici di stillante lentezza e che aveva sistemato per me, dorso accanto a dorso, libri che non leggeva, lei, dei cui tre fratelli restava soltanto quel che neppure riempiva una valigia di medie dimensioni e che li vedeva continuare a vivere in me – «tutto questo l’hai preso da Arthur e da Paul, e un po’ anche da Alfons…» -, lei, che mi faceva l’uovo sbattuto, lei, che rideva quando masticavo il sapone, lei, che fumava sigarette orientali e a volte le riuscivano gli anelli di fumo, lei, che credeva in me, nel suo nato con la camicia – per questo apriva l’annuario dell”Accademia di Belle Arti sempre alla stessa pagina -, lei, che a me, al suo figliolino, ha dato tutto e dal quale ha ricevuto poco, lei, che è la mia valle di gioia e di lacrime e che, appena scrivevo come scrivevo prima e scrivo come scrivo adesso, anche dopo morta si mette alle mie spalle e dice «questo cancellalo», «questo è brutto» – ma io le ho dato retta solo di rado e quando l’ho fatto era troppo tardi -, lei, che mi ha partorito con dolore e morendo con dolore mi ha liberato perche scrivessi e continuassi a scrivere, lei, che adesso vorrei risvegliare con un bacio sulla carta ancora bianca, perché venga in viaggio con me, soltanto con me, veda solo cose belle e possa finalmente dire: «Sono riuscita a vedere tutto questo che bello, che bello…», lei, mia madre, morì il 24 gennaio 1954. Ma io piansi solo più tardi, molto più tardi.

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02-09-2009 at 15:49

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Franz Kafka

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Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924) è stato uno scrittore ceco di lingua tedesca, considerato uno dei maggiori del XX secolo.

La tematica principale di Kafka, il senso di smarrimento e di angoscia di fronte all’esistenza, carica la sua opera di contenuti filosofici che hanno stimolato l’esegesi dei suoi scritti, specialmente a partire dalla metà del Novecento. Non sono pochi i critici che hanno intravisto elementi esistenzialistici molto spiccati, tali da farne un esistenzialista o almeno un anticipatore dell’esistenzialismo contemporaneo.

Non si può dire di Kafka se non si dice prima dell’ambiente in cui nacque e si formò. Bisogna sapere di Praga, innanzitutto, capitale boema dell’allora impero asburgico. Città di magica bellezza (lo è ancor oggi, pur se in misura infinitamente minore), città di imperatori e rabbini, di alchimisti e scienziati (e in una casupola nella Viuzza d’oro – quella degli alchimisti – Kafka abitò per non poco tempo), di artisti, santi, eretici. Città a tre colori perché composta di tre diverse etnìe, ognuna con la sua lingua e le sue tradizioni: la ceca, l’ebraica, la tedesca (un melting pot decisamente meglio riuscito di quello statunitense, almeno fino alla seconda guerra mondiale). Bisogna sapere che Kafka apparteneva al popolo ebraico, ma che studiò in scuole tedesche e scelse la lingua tedesca per la sua futura carriera di scrittore, anche se conosceva bene anche il ceco. Bisogna sapere che era un introverso ipersensibile e geniale, figlio di un facoltoso commerciante ebreo di natura sanguigna e autoritaria: il che gli causò un complesso paterno chiaramente riscontrabile nella famosa (e mai spedita) Lettera al padre.

Bisogna sapere poi che ebbe amicizie importanti – sul piano intellettuale e umano – con scrittori locali, per lo più ebrei di lingua tedesca, come Franz Werfel e il fedele Max Brod, suo esecutore testamentario, al quale dobbiamo la nostra conoscenza delle opere di Kafka, dato che questi pochissimo aveva pubblicato in vita e aveva lasciato scritto nel testamento di bruciare tutti i suoi manoscritti; fortunamente Brod se ne guardò bene… Ma è importante anche sapere che, figlio critico ma realista di una borghesia "coi piedi in terra", non sognò mai una vita di sola arte o di bohème, ma – laureatosi in legge nel 1906 – fu impiegato per molti anni prima presso le Assicurazioni generali, poi presso l’Istituto di assicurazione per gl’infortuni sul lavoro. Non guasta nemmeno sapere che fu un impiegato e funzionario non solo molto diligente ma anche inventivo. Come persona fu sempre gentile, delicato, capace di ascoltare e di aiutare, un giovane magro e di bellissimo aspetto (sembrava un principe indiano, sorriso enigmatico e occhi di gazzella), non privo di un cauto, sfuggente umorismo.

Bisogna ancora sapere, di Franz Kafka, che sentiva l’attrattiva del matrimonio, della paternità, della consacrata sistemazione sociale. Con Felice Bauer, non bella ma a lui devota e molto paziente, si fidanzò in forma ufficiale, poi ruppe, poi si rifidanzò, poi ruppe in modo definitivo. Con Milena Jesenská, la sua traduttrice in ceco, bella e intelligentissima, ebbe un rapporto intenso ma votato al nulla. Con l’una e con l’altra intrecciò due lunghi epistolari che ci rivelano, di lui, i lati notturni: la disperazione sotto tanta urbanità, la paura esistenziale e metafisica sotto tanto coraggio, la nevrosi ossessiva e demoniaca sotto una vita così normale. Si pensi, a proposito dei suoi lati notturni, che kavka in ceco (pronunciato kafka, che è la germanizzazione del nome) è la nostra taccola, una sorta di corvo: nomen omen…

Bisogna sapere infine, di Franz Kafka, che nel 1917 ebbe i primi chiari sintomi della tubercolosi che lo avrebbe condotto alla morte. La vide avvicinarsi, quella "morte annunciata", insieme con orrore e con sollievo: era la bestia che se lo mangiava vivo giorno per giorno (e per curarsi fece viaggi, anche in Italia, passò mesi in varie case di cura), ma era anche ciò che lo dispensava dal matrimonio, dalla carriera, dalla responsabilità di una vita regolare. Dopo aver quasi perso la voce, dopo essersi ridotto a uno scheletro per la quasi impossibilità di ingerire cibo, morì nel sanatorio di Kierling presso Vienna.

Bastano questi pochi dati per riscontrare, in Kafka e nella sua vita, lacerazioni, contrasti, tensioni, sofferenze, contraddizioni. Le tre stirpi e le due lingue (anzi, tre anch’esse, mettendoci lo yiddish) tra cui fu disputato e conteso; il conflitto col padre; la scissione tra vocazione letteraria e impiego burocratico; lo squilibrio tra normalità borghese e intima demonìa; il rapporto schizofrenico con le donne; la convivenza con la malattia mortale.

Nessuno di questi attriti fu di poco momento o non passò, magari deformato fino all’irriconoscibile, nella sua opera. Vi si aggiungano, poi, altri elementi. Il "senso religioso della vita", ma tra virgolette, perché non solo alieno da ogni fissazione confessionale, ma depauperato di ogni vera speranza, di ogni autentico conforto, e perciò ridotto a sperimentare, della religiosità, soltanto gli aspetti più cruciali: il silenzio o la lontananza o addirittura l’inesistenza di Dio, il sadismo vessatorio di un’inafferrabile istanza superiore che può anche assumere il ghigno di un demone. Ancora: il rapporto sfuggente e controverso con l’ideologia e con l’ebraismo, dalla presenza più o meno sotterranea dello spirito biblico-mosaico-profetico alle consonzanze col misticismo poetico-popolaresco dello chassidismo o all’ammirazione per la grande vitalità del teatro yiddish. Tutto questo, conservando una totale libertà di giudizio e di movimento.

Written by matemauro

02-07-2009 at 20:00

La cultura oggi in Italia

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Qualcuno noterà che è cambiata la frase in testa al blog; mi sembra che sia quella che meglio corrisponde all’attuale momento storico, politico, sociale e culturale del nostro paese. Ancora 30-40 anni fa (una sola generazione…) la situazione era ben diversa.

Nel settembre 1975 un episodio di cronaca nera, il delitto del Circeo (due giovani fascisti pariolini avevano seviziato due ragazze di borgata, uccidendone una), divenne un episodio culturale: Calvino, Pasolini (che verrà assassinato due mesi dopo), Fortini lo commentarono sulla prima pagina del Corriere della sera e del Mondo, leggendovi un imbarbarimento complessivo della società italiana e della condizione giovanile. I protagonisti del dibattito letterario e culturale erano allora anche protagonisti della vita pubblica. Né c’erano solo Calvino, Pasolini e Fortini, ma anche Sciascia, Fo, Sanguineti. Nel 1974 Fo aveva rappresentato per la prima volta il suo capolavoro, Mistero buffo, e Sciascia pubblicato Todo modo, in cui denunciava la collusione fra DC e mafia.

Sempre il 1974 è l’anno in cui erano usciti Corporale di Volponi e La storia di Elsa Morante. Pochi mesi prima sugli schermi cinematografici era apparso Amarcord di Fellini; pochi mesi dopo Montale vincerà il Nobel e usciranno Scritti corsari di Pasolini e Il muro della terra di Caproni. Trentacinque anni fa, gli intellettuali avevano ancora una funzione pubblica, e l’Italia aveva un posto sulla scena internazionale della cultura. I registi italiani erano maestri riconosciuti in tutto il mondo, e si chiamavano Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini. Fra gli scrittori, Calvino e Sciascia avevano in Europa un ruolo di primo piano. In questo scorcio di millennio non sono usciti romanzi e film neppure paragonabili a quelli sopra ricordati. Il ruolo internazionale del cinema, del teatro, della letteratura italiani è vicino allo zero.

Dobbiamo allora prendere atto di un declino, “anche” intellettuale, della civiltà italiana avviato già a partire dagli anni ottanta e accentuato poi, sino a toccare oggi il suo minimo storico. Un immiserimento culturale e civile, dilagato ormai in ogni piega della società italiana; lo stesso “caso Berlusconi” – neppure immaginabile in Gran Bretagna o in Francia o in Germania – è, da questo punto di vista, più che una causa, un effetto. In Europa un italiano ha da vergognarsi non solo del proprio governo, ma di un generale clima etico-politico; siamo davanti a uno sbracamento complessivo, a una mancanza di orgoglio culturale e di dignità nazionale, a un disinteresse per la cosa pubblica, a un’accettazione frettolosa di ogni novità imitatrice di quanto c’è di peggio oltre Atlantico e alla diffusione di un gergo e di un’ideologia economicisti anche in settori che non dovrebbero rispondere a esigenze di mercato, quali la scuola, la ricerca, la sanità.

Insomma, in ambito culturale (e non soltanto in quello) c’è stato un salto fra le generazioni. Nessuna eredità. Fortini, Sciascia, Volponi sono stati dimenticati; Pasolini è stato ridotto a un santino omosessuale e un po’ trasgressivo; Calvino è diventato un classico per gli accademici e i professori dei licei; la neoavanguardia un oggetto da museo e da tesi per le scuole di dottorato. All’inizio degli anni Settanta Pasolini parlava, per il nostro paese, di un genocidio culturale in corso. C’è stato e ha fatto tabula rasa. Rispetto agli Stati Uniti, alla Francia, alla Germania e alla Gran Bretagna l’Italia aveva tradizioni culturali moderne assai più fragili, un costume civile più approssimativo, più posticcio e precario. Il tessuto della memoria e del patto fra le generazioni si è lacerato da noi più che in altri paesi, e fa affiorare una trama esclusiva di facili disimpegni, di egoismi individuali o di gruppi o di corporazioni.

È possibile andare avanti cosi? È successo altre volte che la storia salti una generazione. Nasceranno nuovi scrittori, e si impadroniranno della nostra lingua (già lo stanno facendo) giovani intellettuali albanesi o magrebini. Qualcuno forse ricomincerà a leggere Fortini e Sciascia, Volponi e la Morante, Vittorini, Calvino e Pasolini.

Speriamo.

Written by matemauro

09-06-2009 at 17:05

Pubblicato su cultura, politica

Isaac Asimov

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asimovIsaac Asimov (Petroviči, 2 gennaio 1920 – New York, 6 aprile 1992) è stato un biochimico, scrittore di fantascienza e divulgatore scientifico statunitense di origine russa. Le sue opere sono considerate una pietra miliare sia nel campo della fantascienza che della divulgazione scientifica.

"Ardo dal desiderio di spiegare, e la mia massima soddisfazione è prendere qualcosa di ragionevolmente intricato e renderlo chiaro passo dopo passo. È il modo più facile per chiarire le cose a me stesso."
(Isaac Asimov)

Sono queste le parole che contraddistinguono la mentalità di uno dei più grandi scrittori di fantascienza di sempre e ineguagliato divulgatore scientifico. Uomo di grande cultura, laureato in chimica e biologia, è autore di una vastissima e variegata produzione, stimata intorno ai 500 volumi.

Fu innegabilmente il primo a trasformare questo genere da narrativa di consumo, priva di contenuti, tipica dei cosiddetti pulp magazine, a letteratura di livello, tanto da essere più volte proposto per il Nobel per la letteratura. Fu inoltre tra i primi a puntare tutto sulla plausibilità scientifica delle sue storie, non mancando, comunque, di inserirvi ampie riflessioni sociologiche e futuristiche.

Il suo contributo più importante alla fantascienza è sicuramente il celebre Ciclo della Fondazione, una serie di racconti scritti tra il 1942 e il 1949 e pubblicati in quegli anni sulla rivista Astounding Science Fiction. I racconti, poi raccolti in tre volumi (Cronache della galassia, Il crollo della galassia centraleL’altra faccia della spirale), narrano della caduta dell’Impero galattico e dei lunghi anni d’interregno e di barbarie che ne seguono. Basandosi sulla lettura di Declino e caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon, Asimov realizzò un geniale affresco del lontano futuro dell’umanità, introducendo un concetto, quello della psicostoria, che affascinerà sociologi e psicologi per anni. La psicostoria, elemento sintomatico dell coscienza positivista di Asimov, si basa sull’idea della prevedibilità dei comportamenti delle masse mediante formule matematiche. Ai primi tre volumi se ne aggiunsero poi quattro, scritti tra il 1982 e il 1992: L’orlo della fondazione, Fondazione e Terra, Preludio alla Fondazione e Fondazione anno zero; i primi due seguono cronologicamente la trilogia iniziale, mentre gli ultimi due sono una sorta di prequel.

Nello stesso periodo in cui Asimov era impegnato nella stesura della serie della Fondazione, egli scrisse anche i primi dei suoi racconti sui robot positronici. Asimov per primo rinnovò il concetto di robot, trasformandolo, da versione futuristica del mostro di Frankenstein, tipico della fantascienza precedente, a creatura versatile e realizzata su scala industriale per fungere da aiutante dell’uomo.

Nelle sue opere sui robot (raccolte poi nelle antologie Io robot e Il secondo libro dei robot) enunciò le celebri Tre leggi della robotica, che hanno ispirato esperti di robotica, intelligenza artificiale e cibernetica:

Prima legge
Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano
riceva danno.

Seconda legge
Un robot deve obbedire agli ordini impartiti da un essere umano, a meno che questi ordini non contrastino con la Prima Legge.

Terza legge
Un robot deve salvaguardare la propria esistenza, a meno che questa autodifesa non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.

Tali leggi sono state spesso utilizzate anche in romanzi di altri autori. Asimov, tuttavia le ha sempre considerate come sue e non ha mai autorizzato alcuna citazione, sebbene lasciasse gli autori liberi di fare riferimento ad esse.

In alcune delle sue ultime opere, I Robot e l’Impero e Fondazione e terra, uno l’ultimo della serie dei Robot e l’altro l’ultimo della saga della Fondazione, Isaac Asimov postula l’esistenza di una legge più generale:

Legge Zero
Un robot non può danneggiare l’Umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’Umanità riceva danno.

Con l’introduzione di questa, le tre leggi precedenti vengono conseguentemente modificate: a tutte viene aggiunta la postilla "A meno che questo non contrasti con la Legge Zero". Insomma, la Legge Zero si pone come la più importante delle leggi, ed è significativo il fatto che essa sia stata coniata proprio da un robot (più precisamente, viene formulata da R. Daneel Olivaw, nel romanzo I robot dell’alba, che la attribuisce a R. Giskard, dove le R. stanno, appunto per robot).

Written by matemauro

03-01-2009 at 00:45

Jonathan Swift e Mark Twain

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Mark Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910) è stato uno scrittore umorista statunitense.

È considerato una fra le maggiori celebrità americane del suo tempo. William Faulkner scrisse che fu il "primo vero scrittore americano". È l’autore delle avventure dei celebri personaggi Tom Sawyer e Huckleberry Finn, ma anche dell’esilarante Un americano alla corte di Re Artù.

swift

Jonathan Swift (Dublino, 30 novembre 1667 – Dublino, 19 ottobre 1745) è stato uno scrittore irlandese, autore di romanzi e pamphlet satirici.

È considerato tra i maestri della prosa satirica in lingua inglese; si occupò di politica e religione, mettendo in luce la follia e la presunzione umana. Le sue opere più note sono le satire I viaggi di Gulliver, la Favola della botte e Una modesta proposta.

Ora, sembrerebbe che ci siano pochi punti di contatto tra questi due grandi scrittori. In fondo sono nati in due continenti diversi a un paio di secoli di distanza. Eppure per me sono molto simili.

"Le avventure di Tom Saywer", "Le avventure di Huckleberry Finn" e "I viaggi di Gulliver" sono romanzi che, letti quando ero ragazzo, mi hanno fatto sognare di avventure strane in paesi lontani (reali o meno che fossero) e hanno sicuramente stimolato la mia fantasia. Li ho poi riletti da grande e ne ho colto tutta una serie di altri aspetti che mi hanno affascinato in pari misura.

Due esempi per dimostrare come la loro satira si adatti perfettamente anche ai tempi nostri…

"Be’, era proprio un paese curioso e interessante. E che gente! Era la razza più strana, ingenua e fiduciosa: insomma, non erano altro che conigli. Faceva pena ad una persona nata in una atmosfera sana e libera ascoltare le loro umili e sentite confessioni di lealtà verso il re, la Chiesa e la nobiltà. Come se essi avessero maggior motivo di amare e onorare il re e la Chiesa e la nobiltà di quanto ne abbia uno schiavo di amare e onorare la frusta, o un cane di amare e onorare il forestiero che lo prende a calci! La maggior parte degli abitanti della Britannia di re Artù era composta da schiavi puri e semplici e ne portavano il nome e il collare di ferro intorno al collo. Gli altri erano schiavi di fatto se non di nome; ma si credevano uomini e liberi cittadini e se ne attribuivano il nome. La verità era che la nazione nel suo insieme esisteva per uno scopo, uno solo: strisciare davanti al re, alla Chiesa e ai nobili. Sgobbare per loro, sudar sangue per loro, patir la fame perché essi potessero saziarsi, lavorare perché essi potessero divertirsi, andar nudi perché essi potessero indossare sete e gioielli, pagare le tasse perché essi potessero evitare di pagarle e usare per tutta la vita il linguaggio e i gesti degradanti dell’adulazione perché essi potessero incedere orgogliosi e credersi gli dei di questo mondo. E in ringraziamento di tutto ciò non ricevevano altro che schiaffi e disprezzo; ed erano così sottomessi che consideravano un onore persino questo tipo di attenzione."
(da Un americano alla corte di Re Artù)

"Per contro gli Houyhnmhnm, che vivono sotto il governo della Ragione, non si gonfiano d’orgoglio per le loro buone qualità più di quanto potrei farlo io per non esser privo d’un braccio o d’una gamba: cose di cui a nessun uomo assennato verrebbe in mente di vantarsi, ancorché la loro mancanza lo renderebbe un povero disgraziato. Mi dilungo su questo argomento poiché nutro l’ambizione di rendere la compagnia d’uno Yahoo d’Inghilterra non del tutto intollerabile: supplico pertanto coloro che siano macchiati pur lievemente da quell’assurdo vizio di non osare presentarsi alla mia vista.
[…]
Quando [gli abitanti di Lilliput] scelgono il personale per ogni tipo di impiego, considerano la moralità dell’individuo molto di più della sua abilità; e poiché il governo è necessario all’umanità, sono convinti che un comune cervello sia idoneo ad un compito come ad un altro, e che la Provvidenza non si è sognata mai di fare del governo un’attività misteriosa, comprensibile ad un ristretto numero di intelligenze superiori, di cui non ne nascono più di due o tre in un secolo. Essi invece pensano che tutti sono dotati di sincerità, giustizia, temperanza e simili; virtù, queste, la cui osservanza, unita all’esperienza e alle buone intenzioni, saranno sufficienti a rendere idoneo un individuo al servizio del suo paese, eccetto quei casi nei quali sia richiesto uno specifico corso di studi. Ma non c’è dote intellettuale straordinaria che possa rimpiazzare la mancanza di virtù etiche, e gli impieghi non possono essere affidati alle mani di simili individui. In ogni caso gli errori commessi per ignoranza, in assenza di cattiva intenzione, non saranno mai tanto funesti per il bene pubblico come quelli commessi da uno, disposto per natura alla corruzione, che in più sappia manovrare abilmente per difendere e moltiplicare i suoi raggiri."
(da I viaggi di Gulliver)

Written by matemauro

04-12-2008 at 00:09

Che cos’è la matematica? (2ª parte)

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Mi sono accorto che nel post precedente intitolato Che cos’è la matematica? ho finito per parlare di me stesso, più che dell’argomento del titolo, e allora faccio ammenda con questo post. Inizio con qualche citazione, più o meno celebre.

Come espressione della mente umana, la matematica riflette la volontà attiva, la ragione contemplativa e il desiderio di perfezione estetica. I suoi elementi sono la logica e l’intuizione, l’analisi e la costruzione, la generalità e l’individualità.
(
R. Courant, H, Robbins, Che cos’è la matematica?, Boringhieri, 1971)

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.
(Galileo Galilei, Il saggiatore)

A quelli che non conoscono la matematica è difficile percepire come una sensazione reale la bellezza, la profonda bellezza della natura… Se volete conoscere la natura, apprezzarla, è necessario comprendere il linguaggio che essa parla.
(
R. Feynman, The Character of Physical Law)

La matematica è generalmente considerata come agli antipodi della poesia. Eppure la matematica e la poesia hanno la più stretta parentela, perché sono entrambe il frutto dell’immaginazione. Poesia è creazione, invenzione, finzione; e la matematica è stata definita la più sublime e la più meravigliosa delle finzioni.
(
David Eugene Smith, The Poetry of Mathematics and Other Essays)

Per tre cose vale la pena di vivere: la matematica, la musica e l’amore.
(Renato Caccioppoli)

Riflettendo sullla matematica, sul perché possa essere interessante in sé, prescindendo dalla sua utilità o dalle sue applicazioni, mi è sembrato di individuare alcuni motivi più o meno oggettivi per i quali la matematica possa essere interessante. È vero, peraltro, che in questo modo la riflessione sconfina continuamente verso considerazioni soggettive e criteri personali: da un lato ciò è comune a qualsiasi disciplina: se si chiede a una persona che per mestiere studia un certo argomento perché lo fa, probabilmente risponderà "perché mi piace"; dall’altro lato forse i matematici sono più sensibili di altre categorie (artisti esclusi, probabilmente…) al criterio estetico nel loro lavoro. E allora ecco alcune caratteristiche della matematica che me la fanno amare. Intanto inizio col dire cosa la matematica non è.

La matematica è una scienza? Almeno in senso stretto (e qui parecchi di voi si stupiranno) non lo è: la scienza moderna nasce nel Seicento, la scienza matura è quella di Galileo, di Leibniz e di Newton; prima è soltanto un insieme di tentativi frammentari. La matematica invece è andata emergendo e maturando, come sapere organizzato e strutturato in modo ipotetico-deduttivo (assiomi, definizioni, teoremi ecc.) nei tre secoli che vanno da Talete a Euclide, il periodo in cui è fiorito il grande pensiero filosofico greco. Dunque quando diviene "matura" la scienza, la matematica lo è già da circa duemila anni. La matematica è dunque un’attività legata alla razionalità umana nel suo aspetto più profondo, ma non strettamente, né necessariamente, orientata all’indagine sul mondo fisico e sulle sue leggi. Ma la matematica è, sotto un altro aspetto, scienza, perché, da quando questa è nata, la matematica ha avuto uno sviluppo impressionante, un’esplosione di ricerche e di progressi inimmaginabili prima; la scienza ha fornito alla matematica problemi, stimoli, motivazioni, applicazioni e anche strumenti per la ricerca, senza con ciò esaurire tutti i problemi, le motivazioni, gli stimoli e gli strumenti della ricerca matematica. In secondo luogo, la scienza matura nasce come scienza matematizzata: Newton ha dovuto "inventare" il calcolo infinitesimale per poter "scoprire" le leggi della meccanica; la sua opera fondamentale infatti si intitola I princìpi matematici della filosofia naturale. La scienza moderna parla col linguaggio matematico e senza di esso è muta. Quello che la scienza dice è suggerito dalle indagini scientifiche, ma senza matematica non si potrebbe formulare nessuna legge fisica e nessuna teoria.

La matematica è filosofia? Non del tutto. Anche se in ogni epoca ci sono stati luminosi esempi di grandi matematici che sono stati altrettanto grandi filosofi (Talete, Cartesio, Leibniz, Russell ecc.), nessuno può affermare che la matematica sia filosofia. Per esempio, Cartesio scrisse la sua opera filosofica Discorso sul metodo, e soltanto in appendice mise la sua Geometria: l’invenzione della geometria analitica è pubblicata in appendice a un testo filosofico fondamentale per quella disciplina. Ma le due cose sono solo inserite una dopo l’altra, sostanzialmente non hanno molto in comune. Il metodo dimostrativo della matematica è lontanissimo dal metodo argomentativo della filosofia, come è facilmente dimostrabile con una semplice considerazione: un teorema dimostrato da Cartesio è riconosciuto vero anche oggi, da tutti i matematici, mentre nessuna tesi importante di un grande filosofo di ieri vede "tutti" d’accordo oggi: in filosofia ci sono sempre i sostenitori e i detrattori, in matematica no (o almeno, in molta minor misura).

La matematica è quell’insieme di concetti, definizioni, e regole che abbiamo imparato sui banchi di scuola? In parte sì, ma spesso la considerazione della nostra esperienza scolastica porta a farci un’immagine scorretta della matematica. Talvolta un malcapitato studente, magari annoiato da montagne di esercizi lunghi, complicati, ripetitivi, è indotto a pensare alla matematica come ad un blocco granitico di regole, di definizioni, di procedimenti; a un pesante agglomerato di tecniche forse utili (ma certamente e spesso tutt’altro che piacevoli), una massa cupa, imponente e severa che esiste da secoli e che resterà immutata per altrettanti secoli, esclusivamente destinata ad essere studiata e faticosamente imparata dagli scolari di ieri, di oggi e di domani.

Ma allora, che cos’è la matematica? La prima risposta che mi viene in mente è "il prodotto dell’attività dei matematici", ma sono certo che qualcuno obietterà che così cado in un circolo vizioso (trabocchetto, per la verità, perennemente sulla strada dei matematici…). La seconda risposta, a parte gli scherzi, è che la matematica si occupa delle "verità necessarie", cioè di quello che, intorno a noi, è così perché altrimenti non potrebbe essere.

Mi spiego. Che l’accelerazione di gravità, nelle vicinanze della Terra, sia (all’incirca) di 9,8 m/s2 è una verità scientifica, perché è stata "dimostrata" attraverso innumerevoli esperimenti. È perfettamente plausibile (pensabile) un universo nel quale tale accelerazione valga, invece, 4,2 m/s2; basterebbe che la costante di gravitazione universale (Cgu) fosse diversa, l’universo intero non ne soffrirebbe in alcun modo (anzi, un tuffatore avrebbe modo di eseguire molte più piroette in aria, avendo più tempo a disposizione prima di inabissarsi in acqua…).

Ma, e qui è la differenza tra "le scienze" e la matematica, anche se la Cgu fosse diversa da quella che è, la legge di gravitazione universale, enunciata più di tre secoli orsono dalla buon’anima di Sir Isaac Newton, avrebbe esattamente la stessa forma: essa è una "formula matematica" e nessun universo sarebbe pensabile senza di essa, con qualsiasi Cgu.

In effetti, la matematica non si occupa delle "particolarità", del "contingente", bensì del "generale", del "necessario": la natura del sapere matematico è quella di stabilire le relazioni e i nessi logici tra gli oggetti dei quali si occupa. Essendo "logicamente" necessarie, le proprietà matematiche sono, in un certo senso "a priori" rispetto alle osservazioni "a posteriori" sugli oggetti. La validità universale dei teoremi matematici è resa possibile dalla natura astratta dei concetti e degli oggetti sui quali opera. Dire che un oggetto è astratto vuol dire che esso non è definito nella sua individualità, ma è definito mediante le sue proprietà caratteristiche. L’attitudine ad astrarre è legata al desiderio della nostra mente di cogliere che cosa c’è di più profondamente in comune tra molteplici oggetti di un certo tipo.

Dunque la matematica è quell’attività del pensiero umano che si occupa delle relazioni tra gli oggetti, delle simmetrie, delle similitudini e da esse trae leggi generali.

Per finire, dirò (come suggerito dalla citazione di D.E. Smith in testa) che la matematica è anche poesia; tale considerazione mi è sempre stata suggerita dalla formula (detta identità di Eulero)

e i · π + 1 = 0

Perché? perché collega alcune costanti matematiche molto importanti:

  • Il numero 0, l’elemento neutro per l’addizione (per ogni a, a + 0 = 0 + a = a).
  • Il numero 1, l’elemento neutro per la moltiplicazione (per ogni a, a · 1  = 1 · a = a).
  • Il numero π, fondamentale nella trigonometria;  è una costante per un mondo che è euclideo, o per le piccole scale in una geometria non euclidea (altrimenti, il rapporto fra la lunghezza della circonferenza di un cerchio e il suo diametro non sarebbe una costante universale, cioè la stessa per tutte le circonferenze).
  • Il numero e,una costante fondamentale connessa allo studio dei logaritmi in analisi.
  • L’unità immaginaria i (dove i = √(-1)) è l’unità nei numeri complessi. L’introduzione di questa costante rende risolvibili nel campo dei numeri complessi tutte le equazioni polinomiali.
  • La formula contiene una potenza irrazionale (il numero irrazionale neperiano e, elevato ad un esponente che contiene il fattore irrazionale π), rara nelle formule matematiche, e collega numeri irrazionali reali (e), irrazionali immaginari (i · π), e interi (0 e 1).
  • Inoltre nella medesima formula sono presenti tutti gli operatori fondamentali dell’aritmetica: uguaglianza, addizione, moltiplicazione ed elevamento a potenza; sono presenti tutte le assunzioni fondamentali dell’analisi complessa, e gli interi 0 e 1 sono collegati al campo dei numeri complessi.

Insomma, per il suo significato intrinseco e per il suo contenuto estrinseco, l’identità di Eulero è paragonabile all’Amleto di Shakespeare o alla Divina Commedia di Dante. Ed ecco perché la matematica è come la poesia.

[L’immagine di testa è per affermare che la matematica è anche umorismo…]

Written by matemauro

02-11-2008 at 22:26

Pubblicato su cultura, matematica, scienza

Che cos’è la matematica?

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Per piu di duemila anni, una certa familiarità con la matematica è stata considerata parte indispensabile del patrimonio intellettuale di ogni persona colta. Oggi, il posto tradizionale della matematica nell’istruzione è in grave pericolo, e, purtroppo, la responsabilità si deve in parte attribuire ai rappresentanti professionali della matematica. L’insegnamento di tale disciplina è talvolta degenerato in vuota esercitazione alla risoluzione di problemi, il che può sviluppare un’abilità formale, ma non conduce a una reale comprensione dei vari argomenti né accresce l’indipendenza intellettuale. La ricerca matematica ha mostrato una tendenza verso l’eccessiva specializzazione e l’astrazione esagerata, e le applicazioni e i rapporti con altri campi sono stati trascurati. Tali condizioni, tuttavia, non giustificano affatto una politica di trinceramento; al contrario, la reazione opposta può e deve sorgere proprio da parte di coloro che sono consapevoli del valore della disciplina intellettuale. Gli insegnanti, gli studenti e il pubblico colto chiedono riforme costruttive, non rassegnazione lungo la linea di minima resistenza. La mèta è una vera comprensione della matematica come un tutto organico e come base per il pensiero e l’azione scientifica.
(Richard Courant, dall’introduzione a Che cos’è la matematica?)

Era il 1969 quando, in libreria, presi per la prima volta in mano il libro di Courant e Robbins, Che cos’è la matematica?; ero al penultimo anno di liceo, impegnato nello studio e nell’attività politica (in Italia si era in pieno ’68), e queste parole dell’introduzione mi colpirono in modo particolare. Sia per formazione culturale che per mia indole, ho sempre pensato al "sapere" come a qualcosa di inscindibile, che non si potesse né dovesse separare in una parte "scientifica" e una "artistico/letteraria": la lettura del libro di Charles P. Snow Le due culture e la successiva frequentazione con persone quali Lucio Lombardo Radice (cliccate sul nome, se volete leggere cosa ne scrissi tempo fa) mi hanno sempre più  rafforzato in questa convinzione.

La frattura tra "umanisti" e "scienziati" è divenuta sempre più evidente da quando, tra il Settecento e l’Ottocento, esse sono divenute professioni separate. Fino ad allora non era stato certo così, basti ricordare Leonardo, fulgido esempio di scienziato e di artista, contemporaneamente. È dall’odio reciproco tra queste figure sociali che dobbiamo guardarci e agire perché il baratro venga colmato.

Da un lato, gli umanisti non hanno mai desiderato, né si sono mai sforzati (o non sono mai stati in grado) di capire la rivoluzione industriale, e ancor meno di accettarla; dall’altro la maggior parte degli scienziati è colpevolmente digiuna di letteratura, di arte, insomma di cultura.

Tra l’altro, quel libro fu quello che fece scattare in me la decisione di fare matematica all’università; fino a quel momento ero indeciso tra matematica, fisica, medicina o ingegneria. Già… ingegneria: sarebbe stato il desiderio di mio nonno Umberto, anzi mastro Umberto, come lo chiamavano tutti. Essendo edile, avrebbe tanto voluto che il nipote prediletto avesse fatto ingegneria, così si sarebbe potuto rivalere per interposta persona di tutti i bocconi amari che aveva dovuto mandare giù davanti agli ingegneri sui cantieri… Ma nonno sarebbe morto l’anno dopo, prima che io mi iscrivessi all’università; se avesse saputo che rinunciavo a ingegneria, per lui sarebbe stata forse una delusione.

Per tornare al libro: da quasi 40 anni a questa parte non l’ho mai abbandonato e, caso abbastanza raro per i miei libri, questo ce l’ho esattamente nell’edizione che comperai allora – come si può notare dalle condizioni in cui è ridotto… -; l’altra mia bibbia matematica (ma fors’anche filosofica, artistica, musicale ecc.), Gödel, Escher, Bach, un’Eterna Ghirlanda Brillante di Douglas Hofstadter, invece l’ho comperata più volte, almeno quattro per quanto mi ricordi, vuoi per smarrimento, vuoi per prestiti mai restitutiti.

Written by matemauro

30-10-2008 at 00:07