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Archive for the ‘economia’ Category

La depressione: un problema economico o politico?

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Paul Krugman è un economista statunitense; considerato un liberista di scuola keynesiana, è stato insignito del Nobel per l’economia nel 2008. Dal 2000 collabora con il New York Times, per il quale tiene anche un blog, che ogni tanto vado a leggere. L’altroieri ha pubblicato un post che mi pare chiarisca perfettamente qual è il problema dell’attuale situazione socio-economico-politica. Vi raccomando, in particolare, l’ultimo paragrafo. (Cliccare sull’immagine per leggere l’originale; la traduzione e le sottolineature sono mie.)

Il disfattismo della depressione

Un certo numero di persone mi ha chiesto di intervenire sull’articolo di David Brooks di oggi. Spiacenti, non è mia intenzione di rendere pan per focaccia. Fatemi invece solo fare una considerazione più generale.

Ovunque, in questo momento, ci sono persone che asseriscono che i nostri giorni migliori sono passati, che l’economia ha subito una generale perdita di dinamismo, che è irrealistico aspettarsi un rapido ritorno a qualcosa come la piena occupazione. C’era gente che affermava la stessa cosa nel 1930! Poi arrivò la seconda guerra mondiale, la cui conclusione portò a uno stimolo fiscale di dimensioni adeguate, e improvvisamente ci furono abbastanza posti di lavoro, e tutti quei lavoratori non necessari e inutili si sono rivelati molto produttivi, appunto.

In ciò che vediamo intorno a noi non c’è nulla – nulla – che indichi che l’attuale depressione sia qualcosa più che un problema di domanda insufficiente, che potrebbe essere risolto in pochi mesi con le giuste politiche. Il nostro problema non è, in definitiva, economico: è politico, è provocato da una élite che preferisce aggrapparsi ai propri pregiudizi piuttosto che risollevare la nazione.

Written by matemauro

29-12-2011 at 12:34

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Piccola lezione di fiscalità equa

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Chiarissimo Professore Monti,

devo dire che fin dall’inizio della Sua esperienza quale Presidente del Consiglio dei ministri, ho avuto un atteggiamento di buona disposizione verso questo “nuovo corso governativo”, non foss’altro perché credevo (e i primi fatti mi hanno dato ragione) che sarebbe finalmente cessata la pletora di interventi su una cosa seria come l’economia fatti da (come mi sono permesso di chiamarli) scalzacani, parvenues della politica così come dell’economia.

Ora però, Professore, dopo la presentazione di questa ennesima manovra finanziaria dell’anno di grazia 2011, mi consenta una breve osservazione, premettendo che non sono un’economista, ma un matematico che si diletta anche di cultura umanistica, e che per deformazione (professionale in un caso,  dilettantistica nell’altro), è abituato a dare alle parole il senso e il peso che esse meritano.

I Suoi discorsi – da quando si è insediato nella Sua attuale carica – sono infarciti dell’aggettivo (declinato sempre nel genere nel numero appropriati) “equo”; estraggo dal dizionario Sabatini-Coletti (edizione online sul sito del Corriere della Sera) la definizione di questo aggettivo:

1 Di persona, che giudica con imparzialità ed equilibrio: giudice e.

2 Di cosa, che ubbidisce a un criterio di giustizia, di corrispondenza tra dare e avere, tra colpa e punizione ecc.: prezzo e.; sentenza e.

Ebbene, Professore, mi permetto di sottoporLe questo semplice esempio che credo dimostri in maniera inoppugnabile che nessun regime fiscale in vigore in Italia (né, tantomeno, quello da Lei introdotto ultimamente) risponde alla seconda definizione del termine “equo”.

Prendiamo tre persone (diciamo Anna, Barbara e Cesare) più o meno della stessa età (diciamo sui 45 anni), che abitano tutte nella stessa grande città (Roma, tanto per dirne una) in una casa in affitto delle stesse dimensioni, nessuno dei tre è sposato né ha figli e, guarda caso, hanno goduto in questo anno dello stesso identico reddito lordo: poniamo 60 000  €. Le uguaglianze dal punto di vista reddituale, però, finiscono qui, e vediamo perché.

Anna lavora in una grande multinazionale, dove ha la qualifica di quadro con una buona anzianità. Poiché gode soltanto del reddito che le deriva dall’essere lavoratore dipendente, paga, su quel reddito di 60 000 euro, una tassazione IRPEF di 19 720 €.

Barbara invece lavora come segretaria in un’altra azienda; il suo reddito annuo sarebbe di 30 000 € lordi, ma per sua fortuna i genitori le hanno lasciato tre appartamenti che lei affitta a 10 000 € l’anno ognuno. Barbara paga allo Stato 6 883 € di IRPEF e una cedolare secca di 6 300 € per i canoni di locazione riscossi dai suoi affittuari (Barbara è una persona onesta e i suoi contratti di affitto sono regolarmente denunciati).

Passiamo infine a Cesare; egli non “lavora” (nel senso tecnico del termine) più: dopo molti anni passati nell’esercizio commerciale che era stato dei suoi genitori, ha avuto il coraggio e/o la fortuna di venderlo nel momento più opportuno e adesso, investito il ricavato della vendita in diversi fondi comuni d’investimento, ne ricava 60 000 € lordi, sui quali (anche con il recente aumento della cedolare dal 12,5% al 20%) paga 12 000 € di tasse allo Stato.

Ecco, Professore: le pare “equo” un regime fiscale che tratti in modo così “iniquo” i redditi? Non contando, per sovrapprezzo, che Cesare, quello dei tre che non produce e non fa produrre, non lavora e non dà lavoro, ma ha semplicemente immobilizzato dei capitali, è quello che addirittura paga meno tasse di tutti?

Non sarebbe più “equo” un sistema che tassasse tutti e tre per 14 967,67 €? O sono io che, da non economista, non capisco la differenza tra quei redditi oppure c’è qualcosa di ingiusto e di “iniquo” nel sistema di tassazione; e a quell’ingiustizia e a quell’iniquità quale governo migliore del Suo – composto di persone che della materia sanno – può (volendo) mettere mano e rimediare?

La ringrazio per l’attenzione che Ella vorrà concedere a questo modesto articolo.

Cordiali saluti e auguri di un buon lavoro sul fronte dell’equità.

Written by matemauro

10-12-2011 at 15:36

Pubblicato su economia, politica, varie

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Un articolo di Eric Hobsbawm

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Hobsbawm_EricEric Hobsbawm (Alessandria d’Egitto, 9 giugno 1917) è uno storico e sociologo marxista britannico. Ha dedicato molte delle proprie ricerche alla storia della classe operaia inglese e di quella internazionale in genere. È, da sempre, alieno da posizioni dogmatiche ed è stato il creatore di due termini storici diventati punto di riferimento per la storiografia: il “secolo breve” (il XX, dal 1914 al 1991) e il “secolo lungo” (il XIX, dal 1789 al 1914). In questo articolo esamina la situazione economica internazionale e gli eventuali sviluppi; l'articolo è focalizzato sulla situazione britannica, ma mi sembra che potrebbe essere adattato pari pari per qualunque Paese, inclusa lItalia, visti oltretutto i recenti sviluppi della crisi in Grecia e altrove.
 
Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta. Cosa succederà adesso?
di Eric Hobsbawm
 
Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma ancora non abbiamo imparato a vivere nel XXI, o almeno ad adottare una modalità di pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere difficile come sembra, visto che le idee fondamentali che hanno dominato l’economia e la politica nel secolo scorso sono scomparse nel canale di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le economie industriali moderne – in realtà tutte le economie – in termini di due poli opposti, mutuamente esclusivi: capitalismo e socialismo.

Siamo così passati attraverso due tentativi pratici di realizzare questi sistemi nella loro forma pura: da un lato, le economie a pianificazione statale centralizzata di tipo sovietico e, dall’altro, l’economia capitalistica basata sul libero mercato, esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni ottanta, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni trenta a oggi. Per certi versi, questa crisi è più profonda di quella, perché a quei tempi la globalizzazione dell’economia non era così sviluppata come oggi e perché la crisi non colpì in pieno l’economia pianificata dell’Urss. Ancora non conosciamo gravità e durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che essa segnerà la fine di quel tipo di capitalismo che si è imposto nel mondo dai tempi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

L’impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese, sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto privato. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste, nelle quali il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati, in un modo o nell’altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare alle persone di sinistra.

Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico; non soltanto per le loro carenze politiche, ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie (anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative). D’altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l’anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e quelli di sinistra moderata dei Paesi capitalistici del settentrione del mondo e dell’Australasia si erano impegnati sempre più a magnificare le sorti del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell’Urss a oggi, non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il Partito laburista britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all’ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito democratico degli Stati uniti.

L’idea fondamentale del New Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si potesse aver fiducia che il sistema capitalistico avrebbe fatto fiorire e avrebbe generato più ricchezza di ogni altro sistema: i socialisti non avrebbero dovuto far altro che garantire una distribuzione egualitaria. A partire dal 1970, però, la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Labour e, in verità, anche le politiche di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ottanta, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco (una possibilità reale all’epoca) doveva mettersi al passo con i tempi.

Ma non fu così. Sotto l’impatto di quella che a suo parere era la rivitalizzazione economica thatcherista, il Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l’ideologia, o piuttosto la teologia, fondamentalistica del mercato libero globale. Il Regno unito deregolamentò i propri mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l’esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla trasformazione del proprio Paese in un centro mondiale di servizi finanziari, e di conseguenza in un paradiso per i riciclatori multimilionari di denaro. Così, l’impatto reale della crisi mondiale sulla sterlina e sull’economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello che essa avrà sulle altre economie occidentali e ciò renderà, probabilmente, la guarigione più difficile.

Si potrebbe dire che ormai questa è acqua passata, che siamo liberi di tornare all’economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione – nazionalizzazioni comprese -, cosicché non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo quegli strumenti che il Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Ma questo vorrebbe dire che sappiamo usare quegli attrezzi. Non è così. Da un canto non sappiamo come superare l’attuale crisi. Nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: sono tutti dei ciechi che cercano di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con ogni sorta di bastone, nella speranza di trovare una via d’uscita. D’altro canto, sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere hanno loro regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l’impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore, perché più efficiente, di fare le cose? Che l’organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero fungere da modelli anche per i servizi pubblici, l’educazione e la ricerca? Che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempreché tutti gli altri (eccetto una sparuta minoranza di poveri) stiano un po’ meglio? Che ciò di cui ha bisogno un Paese, in ogni caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che sia così.

 
Comunque, una politica progressista richiede qualcosa di più che una rottura netta con i principi economici e morali degli ultimi trenta anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l’abbondanza che questa comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone. Prendiamo il caso di Londra. È evidente che a tutti noi importa che l’economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell’enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del Pil britannico, ma il modo in cui questo fatto ha influito sulle vite dei milioni di persone che lì vivono e lavorano. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere nella città? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o comunque un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti a tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle? Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non è compensata dal fatto che le università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.
 
La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non deve essere basata soltanto sull’aumento del reddito e dei consumi dei privati, ma soprattutto sull’ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen*, delle possibilità di tutti per mezzo dell’azione collettiva. Ma questo significa – deve significare – iniziativa pubblica senza fini di profitto, foss’anche soltanto per redistribuire l’accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale. In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell’ambiente. Qualsiasi logo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all’azione pubblica, un cambiamento maggiore di quello proposto dal governo britannico. E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte. 
 
Mia traduzione da Socialism has failed. Now capitalism is bankrupt. So what comes next?,  «The Guardian», 10 aprile 2009

*Amartya Sen è un economista indiano, ha ottenuto il Nobel per l'economia nel 1998.

Written by matemauro

29-04-2010 at 18:30

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Sonetto in dialetto

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L’esperto de ’r mercato

Je se disse così, pe’ da’ ’n conzijo:
“Giggi, nun te ’mpiccia’ de ’sti prodotti
da ggente esperta!” “Sì, tanto ne pijo
propio pochi, dànno er quattro e rotti…”

Ce se buttò come li polli a ’r mijo:
in Borza mischiò bonde e… cipollotti,
diventò gaggio, mise su ’n cipijo
che j’avresti tirato du’ cazzotti.

Sapeva tutto de l’economia:
lasciò er Messaggero e passò a ’r Zole.
“Ma accontentate de li botte, via!

Te ridurai a magna’ solo ciriole…”
C’è stato er cracche, pe’ strada mo’ dipigne…
Chi troppo vòle, a vorte, gnente strigne!
 
 
L’esperto del mercato

Gli si disse così, per dare un consiglio:
“Gigi, non ti impicciare di questi prodotti
per gente esperta!” “Sì, tanto ne prendo
proprio pochi, dànno il quattro e rotti…”

Ci si buttò come gli uccelli sul miglio:
in Borsa mescolò bond e… cipollotti,
diventò superbo, mise su un cipiglio
che gli avresti tirato due pugni.

Sapeva tutto dell’economia:
lasciò il Messaggero e passò al Sole.
“Ma accontentati dei Bot, via!

Ti ridurrai a mangiare solo panini…”
C’è stato il crac, adesso dipinge per strada…
Chi troppo vuole, a volte, nulla stringe!

Written by matemauro

06-11-2009 at 21:50

Pubblicato su economia, poesia, roma, umorismo

Economia creativa!

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soldi-topi

Un giorno in un paesino degli Stati uniti d’America apparve come dal nulla un tizio, annunciando agli abitanti che avrebbe acquistato tutti i topi che avessero potuto trovare, per 10 dollari ciascuno.

I paesani, sapendo che nella zona c’erano parecchi roditori, abbacinati dalla possibilità di guadagnare denaro senza praticamente alcuna fatica, partirono in quarta e cominciarono a posizionare trappole e ad acchiappare topi. L’uomo ne acquistò centinaia a 10 dollari l’uno, ma siccome la popolazione di topi diminuiva, i paesani dovettero desistere.

Allora l’uomo annunciò che era disposto ad acquistare i topi a 15 dollari l’uno e i paesani ricominciarono a cacciarli. Ma presto di quelle bestiole non se ne trovarono più e gli abitanti del paese ritornarono alle loro abituali occupazioni. L’offerta salì a 20 dollari; gli abitanti rimisero in funzione le loro trappole, finché la popolazione di topi diventò così piccola che era molto raro vedere un topo, non parliamo poi di acchiapparne uno.

L’uomo allora annunciò che avrebbe acquistato altri topi per 50 dollari ciascuno. "Siccome però devo recarmi per affari urgenti in un’altra zona, degli acquisti si occuperà il mio qui presente assistente."

Appena il tizio fu partito, l’assistente riunì i paesani e disse loro: "Guardate queste gabbie, con tutti questi topi che il mio capo vi ha acquistato. Io ve li vendo a 35 dollari e quando ritornerà, potrete rivenderglieli a 50!".

I paesani riunirono tutto il denaro che avevano, addirittura alcuni dovettero vendere tutto ciò che possedevano, e riuscirono ad acquistare tutti i topi dall’assistente.

Giunta la notte, l’assistente sparì. Non li si rivide mai più, né lui né il suo principale. Restarono soltanto topi che correvano in tutte le direzioni.

Benvenuti nel mondo della finanza creativa!

Written by matemauro

25-10-2008 at 17:53

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Giorgio Ambrosoli

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Giorgio_Amborsoli

Giorgio Ambrosoli (Milano, 17 ottobre 1933 – Milano, 11 luglio 1979) è stato un avvocato italiano, esperto in liquidazioni coatte amministrative.

11 luglio 1979. Sono le 22, e a Milano un gruppetto di amici si scioglie, dopo aver assistito a un incontro di pugilato alla tv. L’ultimo a tornare a casa, di questi amici, si chiama Giorgio Ambrosoli. Inserisce le chiavi nella toppa, ma una voce, con un pesante accento nordamericano, lo chiama: "Signor Ambrosoli!". L’uomo si volta e vede una 357 Magnum. Lo sapeva già: doveva succedere, agli uomini come lui succede, in Italia, di morire così. Forse lo sa anche l’uomo con la pistola, che queste cose vanno sempre a finire così: tanto che, prima di premere il grilletto, dice: "mi scusi, signor Ambrosoli".

Ricordiamo brevemente chi furono i protagonisti dell’intera vicenda, tanto per riaffermare che ricordare è uno degli esercizi più efficaci per migliorare.

La Banca Privata Italiana di Michele Sindona: nasce all’inizio di agosto del 1974, e nasce, però, con un pesante fardello: la Banca d’Italia, infatti, ha da tempo sotto controllo i conti delle banche sindoniane, che appaiono pesantemente gravati da irregolarità di ogni genere e specie. Esse appaiono in realtà nodi di una rete molto più vasta, il cui scopo è la circolazione irregolare di capitali in tutto il mondo, e la "pulitura" di capitali sporchi. In questa rete, però, non c’è solo Sindona: c’è la mafia, innanzitutto, italiana e americana; c’è il Vaticano, con la sua Banca, lo Ior; c’è la massoneria, anche se ancora non si sa (la P2 verrà scoperta quasi sette anni dopo); c’è, soprattutto, l’appoggio incondizionato di settori importanti della vita politica italiana, a partire da quel Giulio Andreotti che definisce Sindona "salvatore della lira". Più di una semplice banca, la Banca Privata Italiana.

Michele Sindona, classe 1920; da Patti, in Sicilia, suo paese di origine, lo ritroviamo, nel dopoguerra, a Milano: avvocato, consulente fiscale, commercialista. Un potere in vertiginosa ascesa, ottimi rapporti politici in Italia ed in America; finché, nel 1973, l’ambasciatore americano in Italia, John Volpe, lo dichiara addirittura "uomo dell’anno". Ma chi è davvero Michele Sindona? Il golden boy della finanza privata cattolica, opposta a quella pubblica e laica incarnata da Bankitalia e da Cuccia, con la sua Mediobanca? Il collettore finanziario di interessi politici inconfessabili? Uno strumento nelle mani del partito anticomunista, affollatissimo in quegli anni (Vaticano, Usa, mafia, servizi segreti, P2…)? Di sicuro, non è soltanto un banchiere.

Giorgio Ambrosoli: è un avvocato tributarista milanese, politicamente moderato, conservatore, anzi monarchico. Ha già liquidato un’altra società finanziaria, insieme ad altri colleghi, compiendo un ottimo lavoro. L’allora Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, lo sceglie come liquidatore unico della Banca Privata Italiana: perché lui, perché solo lui? Perché così come avverrà per Pio La Torre, per Carlo Alberto Dalla Chiesa, per Giovanni Falcone, per Paolo Borsellino e tanti altri, la solitudine è stato il sistema scelto dai loro avversari (mafiosi o piduisti, poco importa) per poterli colpire più facilmente.

Ambrosoli capisce molto presto che il suo lavoro non è soltanto quello di appurare l’enorme deficit accumulato dalla Banca Privata; troppi misteri si annidano intorno a questa banca, per pensare a un semplice crac finanziario. Dopo avere predisposto un quadro esaustivo del passivo netto della Banca, l’avvocato milanese si trova di fronte a un’altra impresa, davvero immane: arrivare al cuore dell’intero sistema finanziario sindoniano. Ci riesce nel 1975, riuscendo a penetrare la cortina di silenzi e segreti posta a tutela della finanziaria del Liechtenstein Fasco. Appena Ambrosoli tocca la Fasco, però, la tregua concessa da Sindona al liquidatore, probabilmente al solo scopo di valutarne la malleabilità, salta.

Per Giorgio Ambrosoli, e per il maresciallo della Finanza Silvio Novembre, che ne diventa la guardia del corpo, l’aiutante e il confidente, in quel 1975 iniziano le minacce e le pressioni. Nel frattempo, anche la banca americana di Sindona, la Franklin National Bank, è giunta al capolinea: sul suo crac, così, indaga l’Fbi. Sindona, però, dimostra di non essere disposto ad arrendersi così facilmente; nonostante venga arrestato a New York, nel 1976 (verrà liberato su cauzione), inizia a giocare le sue carte per salvarsi. Da un lato inizia un sottile gioco di ricatti e minacce nei confronti di politici e finanzieri (trapela, per esempio, la notizia che Sindona sarebbe in possesso di una "lista dei 500", comprendente i nominativi di illustri personalità che si sarebbero servite della rete di Sindona per esportare capitali sporchi, dall’altro lato va all’attacco dell’ostacolo più immediato che si frappone ad una sua riabilitazione: Giorgio Ambrosoli.

L’avvocato milanese, ormai, è completamente isolato: continua nel suo lavoro, ma capisce che non potrà contare su nessun appoggio o alleato, a nessun livello. Troppe sono le forze in campo in questa vicenda, per un uomo solo come lui. Capisce di aver messo le mani su un sistema di potere intenzionato a non essere smantellato, ma anzi a durare il più a lungo possibile. Inizia ad intravedere il finale della sua storia; tanto che scrive una lettera "a futura memoria" indirizzata alla moglie (che la troverà fra le carte del marito), in cui tenta di spiegarle le ragioni che lo hanno spinto a non rinunciare al suo incarico, anche se, per lui, potrebbe essere l’ultimo:

"Anna carissima,
è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Bpi, atto che ovviamente non soddisferà molti […] È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. […] Con l’incarico, ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo e ho sempre operato – ne ho la piena coscienza – solo nell’interesse del paese, creandomi ovviamente solo nemici […] Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo che saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto […] Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa […]".

Nel frattempo, però, anche in America vogliono conoscere quanto accertato da Ambrosoli: alla fine del 1978 l’avvocato si reca a New York per rendere deposizione giurata davanti al Grand Jury su quanto da lui appurato. Il 26 gennaio 1979, infine, l’Italia chiede l’estradizione dagli Usa per Michele Sindona. Per evitare questo, vengono predisposti degli affidavit, da sottoporre a giudici americani, in cui si assicura che Sindona è sotto processo in Italia per ragioni esclusivamente politiche, essendo, lui, un anticomunista della prima ora. Tra i firmatari compaiono Licio Gelli ed Edgardo Sogno, oltre ad altri confratelli della P2.

In quei giorni, un killer italoamericano, William Aricò, viene contattato da "qualcuno". C’è da fare, con ogni probabilità, un lavoro in Italia. Il committente ha un nome altisonante: Michele Sindona. L’obiettivo è un avvocato milanese, che ha ficcato il naso troppo a fondo. L’omicidio viene commesso esattamente il giorno prima che Amborosoli firmi la dichiarazione formale della chiusura della sua inchiesta.

Corrado Stajano, in un suo libro intitolato L’eroe borghese, ha raccontato come meglio non si potrebbe tutta la storia di Giorgio Ambrosoli e della Bpi. Da quel libro è stato poi tratto un film, per la regia di Michele Placido, recante lo stesso titolo.

Written by matemauro

17-10-2008 at 22:13

Pubblicato su ambrosoli, economia, storia

Teorema del salario

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conoscenza

Il Teorema del salario (Tds), scoperto dal famoso economista malese Lavo Ropoko (ordinario presso la facoltà di Tuttologia dell’Università di Nullafacendo), afferma, in parole semplici, che gli uomini di cultura non potranno mai guadagnare tanto quanto gli uomini d’affari.

Ecco il teorema, dimostrato in pochi e banali passi, alla portata di chiunque.

DIMOSTRAZIONE:

L’equazione si basa sui seguenti due assiomi, noti fin dall’antichità:

Assioma 1: La Conoscenza è Potenza (Conoscenza = Potenza)
Assioma 2: Il Tempo è Denaro (Tempo = Denaro)

È noto a chiunque abbia conoscenze scolastiche che:

Potenza = Lavoro/Tempo

Sostituendo le eguaglianze fornite dagli assiomi 1 e 2 si ha:

Conoscenza = Lavoro/Denaro

E, con una semplice trasformazione:

Denaro = Lavoro/Conoscenza

Dunque Denaro e Conoscenza sono inversamente proporzionali; banalmente si può dire che:

– se la Conoscenza tende a zero, il Denaro tende verso infinito, qualunque sia la quantità di lavoro, anche se molto piccola;
– inversamente, quando la Conoscenza tende verso infinito, il Denaro tende a zero anche se il lavoro è molto elevato.

Lemmi derivanti dal Tds:

1. Meno saprete, più guadagnerete.

2. Se avete qualche difficoltà di applicazione allo studio, ci sono buone possibilità che prima o poi facciate molta grana.

3. Se invece capite tutto, siete fregati.

Written by matemauro

24-06-2008 at 15:29

Pubblicato su economia, umorismo