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Jiří Trnka – Lo Shakespeare dal tocco boemo

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Jiří Trnka (Plzeň, 24 febbraio 1912 – Praga, 30 dicembre 1969) è stato un illustratore, animatore e regista cecoslovacco. È famoso soprattutto per le sue animazioni di pupazzi in passo uno.

Questo post avrebbe anche potuto sottotitolarsi “il Walt Disney dell’Est”, viste le somiglianze tra i due grandi artisti. Con due grosse differenze, però: Disney lavorava soprattutto per un pubblico infantile o al massimo familiare, Trnka lo faceva principalmente per un pubblico adulto; la seconda è che mentre Disney lavorava con i disegni, Trnka realizzava i suoi film con i pupazzi, “in passo uno”: cioè dopo ogni scatto della cinepresa, i pupazzi e gli oggetti scenici venivano mossi di un nonnulla, poi un altro scatto, altro movimento e così via.

Trnka è stato l’esponente più prestigioso e ufficiale di quella cinematografia di pupazzi animati che ha reso la produzione cecoslovacca riconoscibile in tutto il mondo. Anche la Rai a due canali d’allora trasmetteva i suoi film in bianco e nero nella “Tv dei ragazzi” e probabilmente non solo perché c’era un robusto Pci all’opposizione. Semplicemente, i suoi pupazzi animati avevano un proprio fascino poetico e di presa immediata.

Del valore del maestro se ne accorsero subito anche i giurati del Festival di Cannes del 1946, che assegnarono il Grand Prix della giuria a uno dei suoi primi cortometraggi: Zvířátka a petrovští (Gli animali e i briganti), un balletto fiabesco in cui tre animali domestici, assieme alla vegetazione e agli abitanti della foresta, cacciano via i briganti usurpatori. Realizzato diversamente dal modello disneyano, esso raccolse le sue precedenti esperienze di illustratore per l’infanzia e di disegnatore satirico.

Nonostante l’affermazione nella tecnica di animazione di disegni dominante ai suoi tempi, Trnka individuò nel pupazzo animato, prosecutore della tradizione boema dei pupazzi risalente al XVII secolo, il mezzo espressivo più consono alla sua arte filmica. Così fondò a Praga nello stesso 1946 il proprio studio di produzione. Nel 1959 realizzò Sogno di una notte di mezz’estate e catturò di nuovo l’attenzione di Cannes, espressa con il massimo premio conferito dal comitato tecnico e, sempre nel 1959, anche Venezia gli consegnò una medaglia d’onore. In effetti, nel suo Sogno Trnka si situa all’apice di una maestria tecnica che si fonde con le atmosfere oniriche e soprannaturali immaginate da Shakespeare. Nella messinscena animata a tre livelli, alle parole si sostituiscono mimica e musica e le figure – nobili, mitiche, popolari – fondono la propria corporeità con quella materia di cui sono fatti i sogni. E come il mestierante Bottom s’incontra per magia con la regina delle fate Titania, così il raffinato artigianato di Trnka, in cinque anni di lavoro, rende materialmente percepibile la dimensione fantastica ideata da Shakespeare.

L’ultimo suo film, Ruka (Mano) suddiviso nelle due parti che vi presento qui sotto, costituì una rottura sorprendente e inaspettata nel suo lavoro. È un’allegoria politica con un momento catartico finale, senza quegli slanci di lirismo ai quali Trnka aveva abituato i suoi spettatori. Unici protagonisti: un ordinario pupazzo-artista e una mano (nuda o guantata) quale suo dispotico antagonista. Il film venne realizzato nel 1968, pochi mesi dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Forse Trnka presagiva già la cupezza dell’atmosfera che sarebbe seguita al profumo di novità e libertà incarnato dalla Primavera di Praga. Come ultima beffa va ricordato che l’artista (il regista e realizzatore del filmato, voglio dire, non il protagonista, e capirete cosa voglio dire dopo aver visto il filmato…) morì pochi mesi dopo e gli vennero tributati funerali di stato.

Guardatelo e godetevelo, ne vale davvero la pena. (Attenzione: il sonoro è volutamente asincrono rispetto all’azione; era una tecnica usata dai registi cecoslovacchi, anche nei film non animati, per non distrarre lo spettatore dagli avvenimenti sulla scena.)

Written by matemauro

23-02-2010 at 19:48

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Seifert, io e le donne

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tiziano

Tiziano, La Venere di Urbino

Ho trovato, cercando e ricercando cose che voi, miei lettori, difficilmente potreste venire a conoscere, questa poesia (anzi, lui la chiama filastrocca, o addirittura cantilena, in originale) di uno dei miei autori preferiti, il poeta ceco Jaroslav Seifert, premio Nobel per la letteratura nel 1984. Di lui già parlai in passato, riportandovi alcune sue composizioni.

Questa è abbastanza particolare, e mi ha attratto soprattutto perché riporta il suo pensiero sul genere femminile che coincide quasi alla perfezione con la mia idea (e chi legge frequentemente il mio blog sa che non lo dico per piaggeria).

Mi piace pensare che sia nata magari per caso, una sera, magari in birreria, davanti a un boccale da mezzo litro, magari nella famosa birreria di Švejk, U fleků, o nella altrettanto famosa U Tomáše, mentre con altri amici intorno si discuteva dei pregi e dei difetti delle donne e degli uomini. Forse mentre i suoi amici parlavano, Seifert prese da sotto il boccale il sottobicchiere di cartone e, impugnata la sua inseparabile stilografica, con calligrafia minuta vergò queste righe, chi può saperlo? E soprattutto, chi può smentirmi? 

“Mi chiedete cos’altro sanno fare le donne?”

Mi chiedete cos’altro sanno fare le donne?

Praticamente tutto!

Se qualcuno distende sopra un abisso

tre fili di paglia,

con piede leggero l’attraversano.

Come, non so spiegarlo,

ma rammentate

che i loro piedi hanno inventato la danza.

Quand’hanno un po’ di tempo

lavorano a croce per il bosco nero

le foglie di felce.

Se ardiscon però nel bosco di notte,

con animo spengono i fuochi fatui,

perché neppure nelle paludi

il viandante abbia timore.

Han consigliato poi ai timidi fiori

di riempire i loro calici

del familiare profumo.

E loro stesse poi san far uso,

come di spada, di profumi

pericolosi ancor più

che velenosi scorpioni tropicali.

Ma, cosa ancor più straordinaria,

hanno inventato i seni,

ed essi sono belli

come i castelli sulla Loira.

Forse ancor più belli.

E gli uomini, che sanno fare?

Non molto.

Si sono inventati guerra,

miseria, disperazione e gemiti dei feriti.

Sanno forgiare folli cannoni,

ridurre città in macerie,

e intanto mettono bene in mostra

il meschino coraggio virile.

Hanno inventato le pompe di benzina

e l’emancipazione delle donne.

E in cambio di baci fra le loro braccia

han progettato per loro un sedile speciale

perché una donna

possa perfin lavorare

nell’ultimo mese prima del parto.

È così.

Ed è tutto, addio, adieu.

Volevate una mia filastrocca:

eccola qui!

“Ptáte se, co dovedou ješte ženy?”

Ptáte se, co dovedou ještě ženy?

Patrně všechno.

Jestliže někdo položí přes propast

tři stébla slámy,

přejdou po nich lehkou nohou.

Jak, to neumím vysvětlit,

ale připomeňte si,

že jejich nohy vynalezly tanec.

Ve volných chvílích

uháčkují pro černý les

listí kapradin.

Octnou-li se však v lese za noci,

odvážně zhasnou plamínky bludiček,

aby počestný ani v mokřinách

neměl strach.

Poradily i stydlivým květinám,

aby své kalichy naplnily

důvernou vůní.

Samy však dovedou jako s mečem

zacházet s vůněmi,

které jsou ješte nebezpečnější

než jedovatí škorpióni tropu.

Co je však nejpodivuhodnější:

vymyslily ženská ňadra

a ta jsou krásná jako zámky na Loiře.

Možná, že ještě krásnější.

A co dovedou muži?

Není toho mhono.

Vymyslili si válku,

bídu, zoufalství a nárek raněných.

Umejí vykovat šílená děla,

obrátit města v sutiny

a přitom vystavovat na odiv

ubohou mužskou statečnost.

Vymyslili benzínové pumpy

a emancipaci žen.

A za polibky v jejich náručí

zkonstruovali jim zvláštní sedačku,

aby žena u stroje

mohla ještě pracovat

v posledním měsíci těhotenství.

Tak je to.

A to je vše, sbohem, adié.

Chtěli jste na mne kantilénu,

tady je!

…dimenticavo di aggiungere che la traduzione è mia! 

Written by matemauro

18-02-2010 at 12:27

Pubblicato su donne, poesia, praga, seifert

Neve!

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neve

Dal balcone di casa mia…  (ore 11.00)

Neve

Casca la neve a Roma, fiocca, fiocca!
Sto su ‘r barcone e si la guardo scenne,
paro Babbo Natale fra le renne!
A vedella me se ggira la brocca…

Me ricordo quei tempi mo’ lontani:
a Praga, la neve era cosa seria
no come qua, che ne fa ‘na miseria!
Se bagnaveno a tutti i deretani

scivolanno pe’ le strade ghiacciate;
de neve ne cascava a cartocciate
e ghiacciava… Tutti li regazzini

tiraveno fòri sci e slittini;
sotto casa era ‘no stadio de ‘r ghiaccio,
e drento: vino cotto e castagnaccio!

Neve

Cade la neve a Roma, fiocca, fiocca!
Sto sul balcone e se la guardo scendere,
sembro Babbo Natale fra le renne!
A vederla mi gira la testa…

Mi ricordo quei tempi ora lontani:
a Praga, la neve era cosa seria
non come qua, che ne fa una miseria!
Si bagnavano a tutti i deretani

scivolando per le strade ghiacciate;
di neve ne cadeva a bizzeffe
e ghiacciava… Tutti i ragazzini

tiravano fuori sci e slittini;
sotto casa era uno stadio del ghiaccio,
e dentro: vino cotto e castagnaccio!

neve1

Dal balcone di casa mia…  (ore 14.30)

Written by matemauro

12-02-2010 at 11:24

Pubblicato su neve, poesia, praga, roma

Franz Kafka

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Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 – Kierling, 3 giugno 1924) è stato uno scrittore ceco di lingua tedesca, considerato uno dei maggiori del XX secolo.

La tematica principale di Kafka, il senso di smarrimento e di angoscia di fronte all’esistenza, carica la sua opera di contenuti filosofici che hanno stimolato l’esegesi dei suoi scritti, specialmente a partire dalla metà del Novecento. Non sono pochi i critici che hanno intravisto elementi esistenzialistici molto spiccati, tali da farne un esistenzialista o almeno un anticipatore dell’esistenzialismo contemporaneo.

Non si può dire di Kafka se non si dice prima dell’ambiente in cui nacque e si formò. Bisogna sapere di Praga, innanzitutto, capitale boema dell’allora impero asburgico. Città di magica bellezza (lo è ancor oggi, pur se in misura infinitamente minore), città di imperatori e rabbini, di alchimisti e scienziati (e in una casupola nella Viuzza d’oro – quella degli alchimisti – Kafka abitò per non poco tempo), di artisti, santi, eretici. Città a tre colori perché composta di tre diverse etnìe, ognuna con la sua lingua e le sue tradizioni: la ceca, l’ebraica, la tedesca (un melting pot decisamente meglio riuscito di quello statunitense, almeno fino alla seconda guerra mondiale). Bisogna sapere che Kafka apparteneva al popolo ebraico, ma che studiò in scuole tedesche e scelse la lingua tedesca per la sua futura carriera di scrittore, anche se conosceva bene anche il ceco. Bisogna sapere che era un introverso ipersensibile e geniale, figlio di un facoltoso commerciante ebreo di natura sanguigna e autoritaria: il che gli causò un complesso paterno chiaramente riscontrabile nella famosa (e mai spedita) Lettera al padre.

Bisogna sapere poi che ebbe amicizie importanti – sul piano intellettuale e umano – con scrittori locali, per lo più ebrei di lingua tedesca, come Franz Werfel e il fedele Max Brod, suo esecutore testamentario, al quale dobbiamo la nostra conoscenza delle opere di Kafka, dato che questi pochissimo aveva pubblicato in vita e aveva lasciato scritto nel testamento di bruciare tutti i suoi manoscritti; fortunamente Brod se ne guardò bene… Ma è importante anche sapere che, figlio critico ma realista di una borghesia "coi piedi in terra", non sognò mai una vita di sola arte o di bohème, ma – laureatosi in legge nel 1906 – fu impiegato per molti anni prima presso le Assicurazioni generali, poi presso l’Istituto di assicurazione per gl’infortuni sul lavoro. Non guasta nemmeno sapere che fu un impiegato e funzionario non solo molto diligente ma anche inventivo. Come persona fu sempre gentile, delicato, capace di ascoltare e di aiutare, un giovane magro e di bellissimo aspetto (sembrava un principe indiano, sorriso enigmatico e occhi di gazzella), non privo di un cauto, sfuggente umorismo.

Bisogna ancora sapere, di Franz Kafka, che sentiva l’attrattiva del matrimonio, della paternità, della consacrata sistemazione sociale. Con Felice Bauer, non bella ma a lui devota e molto paziente, si fidanzò in forma ufficiale, poi ruppe, poi si rifidanzò, poi ruppe in modo definitivo. Con Milena Jesenská, la sua traduttrice in ceco, bella e intelligentissima, ebbe un rapporto intenso ma votato al nulla. Con l’una e con l’altra intrecciò due lunghi epistolari che ci rivelano, di lui, i lati notturni: la disperazione sotto tanta urbanità, la paura esistenziale e metafisica sotto tanto coraggio, la nevrosi ossessiva e demoniaca sotto una vita così normale. Si pensi, a proposito dei suoi lati notturni, che kavka in ceco (pronunciato kafka, che è la germanizzazione del nome) è la nostra taccola, una sorta di corvo: nomen omen…

Bisogna sapere infine, di Franz Kafka, che nel 1917 ebbe i primi chiari sintomi della tubercolosi che lo avrebbe condotto alla morte. La vide avvicinarsi, quella "morte annunciata", insieme con orrore e con sollievo: era la bestia che se lo mangiava vivo giorno per giorno (e per curarsi fece viaggi, anche in Italia, passò mesi in varie case di cura), ma era anche ciò che lo dispensava dal matrimonio, dalla carriera, dalla responsabilità di una vita regolare. Dopo aver quasi perso la voce, dopo essersi ridotto a uno scheletro per la quasi impossibilità di ingerire cibo, morì nel sanatorio di Kierling presso Vienna.

Bastano questi pochi dati per riscontrare, in Kafka e nella sua vita, lacerazioni, contrasti, tensioni, sofferenze, contraddizioni. Le tre stirpi e le due lingue (anzi, tre anch’esse, mettendoci lo yiddish) tra cui fu disputato e conteso; il conflitto col padre; la scissione tra vocazione letteraria e impiego burocratico; lo squilibrio tra normalità borghese e intima demonìa; il rapporto schizofrenico con le donne; la convivenza con la malattia mortale.

Nessuno di questi attriti fu di poco momento o non passò, magari deformato fino all’irriconoscibile, nella sua opera. Vi si aggiungano, poi, altri elementi. Il "senso religioso della vita", ma tra virgolette, perché non solo alieno da ogni fissazione confessionale, ma depauperato di ogni vera speranza, di ogni autentico conforto, e perciò ridotto a sperimentare, della religiosità, soltanto gli aspetti più cruciali: il silenzio o la lontananza o addirittura l’inesistenza di Dio, il sadismo vessatorio di un’inafferrabile istanza superiore che può anche assumere il ghigno di un demone. Ancora: il rapporto sfuggente e controverso con l’ideologia e con l’ebraismo, dalla presenza più o meno sotterranea dello spirito biblico-mosaico-profetico alle consonzanze col misticismo poetico-popolaresco dello chassidismo o all’ammirazione per la grande vitalità del teatro yiddish. Tutto questo, conservando una totale libertà di giudizio e di movimento.

Written by matemauro

02-07-2009 at 20:00

Jan Palach

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palach

[…]
libertà va cercando, ch’è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta.
[…]
(Dante, Purgatorio, I)

Jan Palach (Všetaty, 11 agosto 1948 – Praga, 19 gennaio 1969) è stato uno studente cecoslovacco, divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica del suo Paese.

Quest’anno avrebbe compiuto 61 anni. Jan Palach, che definì se stesso come "comunista e luterano" e che al primo anno di studi aveva scritto una tesina su "l’umanesimo nel giovane Marx", oggi invece per molti, quasi tutti, è diventato il simbolo dell’anticomunismo. Si diede fuoco il 16 gennaio del 1969 a Praga nel cuore della città, a piazza Venceslao. Morì tre giorni dopo, dopo atroci sofferenze.

Sacrificò la sua giovane vita per protestare contro la brutalità perpetrata dalle truppe del patto di Varsavia che nell’agosto del 1968 avevano messo fine alla purtroppo breve Primavera di Praga. Faceva parte dell’Unione degli Studenti e si era battuto perché venisse tolta la censura sulla stampa, ripristinata dopo l’invasione. Recentemente uno storico praghese, mettendo ordine nel carteggio del giovane, ha trovato una lettera in cui Palach scriveva che lui e altri suoi colleghi della facoltà di folosofia avrebbero voluto occupare la Radio cecoslovacca e da lì lanciare un appello alla nazione per uno sciopero generale contro l’invasione sovietica. Altri studenti, dei quali non verrà mai reso noto il numero preciso, seguiranno il suo esempio.

Lo studente praghese portò alle estreme conseguenze il desiderio di difendere la verità, rifiutando menzogne e compromessi. Con il suo gesto volle proclamare che “i valori umani non possono essere manipolati ad arbitrio col sopruso e che l’uomo non può accettare la menzogna”.

Quarant’anni dopo a Praga c’è la "libertà". I praghesi e i turisti mettono fiori nella stele che in piazza Venceslao ricorda Palach. Ma allo studente del ’68 sarebbe piaciuta questa città com’è oggi?

Così ne ha parlato il fratello, in un’initervista a un laureando bolognese che su Jan ha preparato la tesi:

"Jan in particolare era rimasto colpito nel vedere quelli che erano stati entusiasti di gennaio rassegnarsi alla situazione seguita all’invasione degli eserciti del Patto di Varsavia. Con il suo atto intendeva scuotere la gente, impedire che cadesse in letargo…"

"All’inizio, quando ci fu la cosiddetta rivoluzione di velluto, venne fondata un’associazione Jan Palach, che ogni anno organizzava una manifestazione di ricordo, alla quale partecipavano alcuni uomini politici, che forse in questo modo volevano rendersi visibili, ma era tutto teatro."

"…nelle persone per bene sicuramente qualcosa ha lasciato. Ma non credo che in mezzo a noi ce ne siano tante. La gente se ne infischia. Guardi: quando ci fu la rivoluzione di velluto piazza Venceslao era piena di gente… Ognuno dei presenti credeva che tutto gli sarebbe caduto in grembo. Bene passano 2, 3 anni e tutti riprendono a imprecare. Come è finita? Dappertutto imbroglioni, corruzione a piene mani."

Mi piace infine ricordare le parole che Jaroslav Seifert, premio Nobel cecoslovacco per la letturatura, di cui ho pubblicato qualche mia traduzione, scrisse in una lettera aperta il 23 gennaio 1969, un paio di giorni prima dei funerali:

"A voi che siete risoluti a morire! Non vogliamo vivere nell’illibertà e perciò non ci vivremo. Questa è la volontà di noi tutti, di tutti coloro che lottano per la libertà del paese e dei nostri popoli. Nessuno deve restare solo; neanche voi studenti, che vi siete decisi al più disperato degli atti, dovete aver l’impressione che non vi sia altra strada che quella che avete scelto. Vi prego, non pensate nella vostra disperazione che le nostre cose si possano risolvere ora o mai più e che si risolvono soltanto qui. Avete il diritto di fare di voi stessi quello che volete. Se non volete però che ci uccidiamo tutti, non uccidetevi."

Written by matemauro

16-01-2009 at 19:40

40 anni fa, la repressione della Primavera

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La democrazia non è solamente la possibilità e il diritto di esprimere la propria opinione, ma è anche la garanzia che tale opinione venga presa in considerazione da parte del potere, la possibilità per ciascuno di avere una parte reale nelle decisioni.
(Alexander Dubček)

praga 1939

colloquio

Queste due foto vi sembrano diverse, vero?

Sono diverse per le uniformi che vi compaiono (naziste nella prima, sovietiche nella seconda), per i volti raffigurati (distrutti dal dolore nella prima, intenti al colloquio con i soldati nella seconda), per gli abbigliamenti immortalati (abiti in stile anni 30 nella prima, anni 60 nella seconda), per il tipo di fotografia (pressoché ufficiale nella prima, molto spontanea nella seconda).

Eppure per me quelle due foto sono la stessa foto, perché rappresentanto due momenti tanto diversi eppure tanto simili del paese che più amo dopo l’Italia (ma non ho difficoltà a riconoscere che in determinati momenti passa in prima posizione).

La prima foto è stata scattata il 15 marzo 1939, e coglie l’ingresso a Praga dell’esercito nazista, sei mesi dopo che le cosiddette "democrazie occidentali" (Francia e Gran Bretagna), mediante il patto di Monaco, con il clownesco contributo di Mussolini, avevano consegnato su un piatto d’argento a Hitler la repubblica cecoslovacca, nata vent’anni prima sulle rovine dell’impero austro-ungarico di francesco-giuseppiana memoria, sperando ignobilmente di distogliere da sé l’attenzione del famelico lupo nazista.

La seconda foto è invece stata scattata il 21 agosto 1968; nella notte tra il 20 e il 21 le truppe del patto di Varsavia (esclusi i romeni) entravano, senza essere invitate, in territorio cecoslovacco. L’invasione (secondo gli invasori l’"aiuto fraterno") doveva reprimere quello che è stato il primo, serio e purtroppo unico tentativo di rendere "umano" il socialismo reale come sviluppatosi nell’Europa orientale del XX secolo, la primavera di Praga.

Ma le primavere non sono nate con quella di Praga e non sono finite: tutto il mondo, dall’inizio dei tempi a oggi, vive gli stridenti contrasti tra un "potere imperiale" (che sia di stampo persiano, greco, romano, nazista, statunitense, russo o cinese per quanto riguarda la politica estera, ovvero cesariano, mussoliniano, hitleriano, staliniano, berlusconiano, sarkozyano o putiniano in politica interna) che fa della propria sopravvivenza – e del mantenimento di sé come unico potere "buono" possibile – la sua ragion d’essere, e i desideri di cambiamento, di ribellione anche non violenta, che una minoranza accorta e pensante di cittadini vorrebbe attuare. Non per sfizio o per voglia di fare la rivoluzione, ma semplicemente perché, mentre il potere, a causa della sua elefantiaca immobilità, non può che richiudersi a riccio, nascondendo anche a se stesso gli effetti negativi del suo predominio, questi effetti sono invece ben visibili e per quanto possibile vanno divulgati, anche a costo di sembrare Cassandre vocianti nel tranquillo mare dell’ordine universale raggiunto.

Ad Alexander Dubček

Nuove primavere,
come in ogni tempo
il mondo brama.
E nuovi profeti
all’uomo narranti verrano:
non è eterna la notte!
Sašenka, principe slovacco,
la tua eredità altri raccoglieranno,
tenendo nel cuore la disillusione
di quell’agosto praghese.
Ma il futuro della nuova alba,
tra dieci o tra cent’anni,
con tutto il suo splendore,
mai eguaglierà
quello che tu hai tentato.

Primavera di Praga
Francesco Guccini

Di antichi fasti la piazza vestita
grigia guardava la nuova sua vita:
come ogni giorno la notte arrivava,
frasi consuete sui muri di Praga.

Ma poi la piazza fermò la sua vita
e breve ebbe un grido la folla smarrita
quando la fiamma violenta ed atroce
spezzò gridando ogni suono di voce.

Son come falchi quei carri appostati;
corron parole sui visi arrossati,
corre il dolore bruciando ogni strada
e lancia grida ogni muro di Praga.

Quando la piazza fermò la sua vita
sudava sangue la folla ferita,
quando la fiamma col suo fumo nero
lasciò la terra e si alzò verso il cielo,

quando ciascuno ebbe tinta la mano,
quando quel fumo si sparse lontano
Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava
all’orizzonte del cielo di Praga.

Dimmi chi sono quegli uomini lenti
coi pugni stretti e con l’odio fra denti;
dimmi chi sono quegli uomini stanchi
di chinar la testa e di tirare avanti;

dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava:
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga.

Nella foto qui sotto: 1989, Alexander Dubček, per la prima volta all’estero vent’anni dopo, in occasione della sua laurea honoris causa all’università di Bologna, con i miei genitori.

Dubcek, mamma e papà

Nell’ultima foto: scritte sui muri di Praga nei gorni dell’invasione. Le scritte recitano:
"Lenin, alzati! Brežnev è impazzito!"
"Sovietici, tornatevene a casa!" (in russo)
"Protestiamo aspramente contro l’occupazione della Cecoslovacchia"
"Unione sovietica garanzia di pace" (ironicamente…)
"Urss -> 1.000 km." (una sorta di indicazione stradale…)

scritte Praga 1

Per chi volesse saperne di più su Dubček e sul "socialismo dal volto umano" consiglio la lettura della sua autobiografia (terminata di scrivere poco prima che morisse in un incidente stadale), che è uscita oggi in edicola assieme a l’Unità; l’edizione è curata da Jiří Hochman, una storico ceco attualmente docente all’Ohio State University, la traduzione è di mio padre (non è pubblicità occulta, non ci prende un centesimo ).

[La poesia Ad Alexander Dubček è mia; Sašenka (si legge "sàscenka") è un diminutivo di Alexander.]

Written by matemauro

20-08-2008 at 14:30

Emil Zátopek

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zatopek

Emil Zátopek (Kopřivnice, 19 settembre 1922 – Praga, 22 novembre 2000) è stato un atleta cecoslovacco.

Zátopek deve la sua fama alla straordinaria impresa, alle Olimpiadi del 1952 di Helsinki, quando, nell’arco di una sola settimana, vinse tre medaglie d’oro nell’atletica leggera. Vinse nei 5.000 e nei 10.000 m, ma l’ultima vittoria la ottenne decidendo di correre per la prima volta in una gara ufficiale la maratona. In ognuna di queste gare stabilì anche il record olimpico. La vittoria nei 5.000 venne dopo un ultimo giro corso con il tempo di 57,5", stroncando i tre avversari che lo precedevano. Un simile exploit alle Olimpiadi non è riuscito a nessun altro atleta del fondo.

Si era presentato al mondo dell’atletica internazionale alle Olimpiadi di Londra del 1948, quando vinse i 10.000 m (alla sua seconda gara su quella distanza) e arrivò secondo dietro a Gaston Reiff (Belgio) nei 5.000 m.

L’anno seguente infranse il record del mondo dei 10.000 m due volte, migliorandolo in altre tre occasioni nei quattro anni seguenti. Ottenne il record del mondo anche nei 5.000 m (1954), nei 20 km (due volte nel 1951), nell’ora di corsa (due volte nel 1951), nei 25 km (1952 e 1955) e nei 30 km (1952).

Vinse i 5.000 m e i 10.000 m ai Campionati europei del 1950 e i 10.000 m nell’edizione successiva. Due settimane (!) prima delle Olimpiadi estive del 1956, a Melbourne venne operato per un’ernia, e dall’atletica nella stagione seguente.ciononostante finì sesto nella maratona. Si ritirò

Il suo stile di corsa era del tutto personale e antitetico a quelli che erano (e sono tuttora…) i sacri testi della corsa: la testa oscillava, il volto si contorceva in spasmi che sembravano di dolore, il busto ruotava a destra e manca; era inoltre noto per ansimare pesantemente, e per questa caratteristica venne soprannominato Locomotiva umana o anche Uomo cavallo.

Considerato un eroe in patria (ma anche nei paesi scandinavi, dove la corsa di fondo è sempre stata considerata una "religione"), fu una figura influente del Partito comunista. Nel 1967 appoggiò l’ala riformatrice del partito; nel periodo della cosiddetta "normalizzazione", susseguente all’intervento armato dei sovietici e dei loro alleati dopo la Primavera di Praga, venne rimosso da tutti gli incarichi di partito e di stato (era colonnello dell’esercito) e costretto a lavorare prima come benzinaio e poi come minatore.

Sua moglie Dana Zátopková (nata esattamente lo stesso giorno del marito) fu anch’essa un’atleta di tutto rispetto. Nel lancio del giavellotto vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Helsinki (1952) – lo stesso giorno in cui il marito vinceva la maratona! – e quella d’argento alle Olimpiadi di Roma (1960) e due titoli europei nel 1954 e nel 1958.

"In sostanza, noi fondisti ci distinguiamo dal resto degli atleti: se vuoi vincere qualcosa, corri i 100 metri, ma se vuoi vivere un’esperienza, allora corri la maratona"

"Non avevo abbastanza talento per correre e sorridere allo stesso tempo"

"È al confine con il dolore e la sofferenza che si nota la differenza tra gli uomini e i ragazzi"

"Uno che corre lo deve fare con i sogni nel cuore, non con i soldi nel portafogli"

"Alle volte la mia corsa assomigliava a quella di un cane pazzo. Non importavano lo stile o ciò che sembravo agli altri: c’erano dei record da battere"

"La vittoria è grande, ma ancora di più lo è l’amicizia"

Written by matemauro

04-08-2008 at 23:14

Pubblicato su atletica, olimpiadi, praga, sport, zatopek

Karel Hynek Mácha

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macha

Karel Hynek Mácha (Praga, 10 novembre 1810 – Litoměřice, 6 novembre 1836) è stato un poeta ceco, il maggiore rappresentante del romanticismo boemo.

Protagonista quasi leggendario della poesia romantica boema per la sua appassionata partecipazione ai moti risorgimentali praghesi, per la precoce morte per una malattia polmonare, per il suo amore sconvolgente per "Lori", Eleonora Somková, conosciuta nell’ambiente teatrale, Mácha è l’autore del poema Máj (Maggio), tradotto in numerose lingue, storia turbinosa del bandito Vilém, che uccide senza saperlo il padre, seduttore della propria amata. Il poema della luce e della tenebra, della natura che trionfa e appaga e del Nulla che la insedia e la corrompe, dell’uomo che si esalta sino al narcisismo e che viene mortificato sino allo strazio da un destino beffardo. Furono queste violente antinomie a sedurre, nel primo Novecento, i surrealisti cechi e a nutrire i grandi maestri della lirica praghese moderna. Immensi sono stati l’influsso e la suggestione esercitati su tutte le generazioni dalla sua morte in poi, sino ai giorni nostri. Fra le caratteristiche della sua opera si notano la struttura sinfonica del suo poema (quattro canti e due intermezzi), la ricchezza delle espressioni metaforiche unita all’organicità del discorso poetico, le sfumature sottili delle luminosità cosmiche sullo sfondo esistenziale della vita e della morte, il largo gesto del suo verso e un nichilismo metafisico audace nella visione della vita e dell’universo.

Máj
Byl pozdní večer – první máj –
večerní máj – byl lásky čas.
Hrdliččin zval ku lásce hlas,
kde borový zaváněl háj.
O lásce šeptal tichý mech;
květoucí strom lhal lásky žel,
svou lásku slavík růži pěl,
růžinu jevil vonný vzdech.
Jezero hladké v křovích stinných
zvučelo temně tajný bol,
břeh je objímal kol a kol;
a slunce jasná světů jiných
bloudila blankytnými pásky,
planoucí tam co slzy lásky.
[…]
Ouplné lůny krásná tvář –
tak bledě jasná, jasně bledá,
jak milence milenka hledá –
ve růžovou vzplanula zář;
na vodách obrazy své zřela
a sama k sobě láskou mřela.
Dál blyštil bledý dvorů stín,
jenž k sobě šly vzdy blíž a blíž,
jak v objetí by níž a níž
se vinuly v soumraku klín,
až posléz šerem v jedno splynou.
[…]
Byl opět večer – první máj
večerní máj – byl lásky čas;
hrdliččin zval ku lásce hlas,
kde borový zaváněl háj.
O lásce šeptal tichý mech,
květoucí strom lhal lásky žel,
svou lásku slavík růži pěl,
růžinu jevil vonný vzdech.
Jezero hladké v křovích stinných
zvučelo temně tajný bol,
břeh je objímal kol a kol,
co sestru brat ve hrách dětinných.
A kolem lebky pozdní zář
se vložila, co věnec z růží;
kostlivou, bílou barví tvář
i s pod bradu svislou jí kůží.
Vítr si dutou lebkou hrál,
jak by se mrtvý z hloubi smál.
Sem tam polétal dlouhý vlas,
jejž bílé lebce nechal čas,
a rosné kapky zpod se rděly,
jako by lebky zraky duté,
večerní krásou máje hnuté,
se v žaluplných slzách skvěly.
[…]

Maggio
Sera tardi, un primo di maggio,
una sera di maggio, tempo d’amore.
La voce dei colombi chiamava all’amore
lì, ove aleggiava il profumo dei pini.
Il muschio sussurrava d’amore;
un albero in fiore mentiva parole d’amore,
l’allodola d’amore cantava alla rosa,
che si palesava con singhiozzo odoroso.
Gelido il lago tra ombrosi cespugli
emetteva sordi brontolii di dolore,
mentre le rive lo abbracciavano;
e soli brillanti di altri mondi
vagavano attraverso fasce azzurrine
ardenti come lacrime d’amore.
[…]
La piena faccia della luna, così bella,
luminosamente pallida e pallidamente luminosa,
come amante che cerca l’amato,
s’infiammò di rosa;
la propria immagine riflesse nell’acqua,
e morì per amore di se stessa.
Ancora, s’allunga l’ombra dei casolari
che tra loro s’avvicinano man mano,
come se, abbracciandosi sempre più giù,
s’intrecciassero nel grembo del crepuscolo
fino a confondersi nell’oscurità.
[…]
E di nuovo sera tardi, un primo di maggio,
una sera di maggio, tempo d’amore.
La voce dei colombi chiamava all’amore
lì, ove aleggiava il profumo dei pini.
Il muschio sussurrava d’amore;
un albero in fiore mentiva parole d’amore,
l’allodola d’amore cantava alla rosa,
che si palesava con singhiozzo odoroso.
Gelido il lago tra ombrosi cespugli
emetteva sordi brontolii di dolore,
mentre le rive lo abbracciavano,
come fratelli in giochi fanciulleschi.
E intorno al teschio il tramonto scintillante
s’è posato come ghirlanda di rose;
ha colorito la bianca, ossea guancia
e la pelle pendula sotto il mento.
Il vento gioca nel cranio vuoto
come se il morto ridesse dalla tomba.
Qui e là svolazza un lungo capello,
lasciato dal tempo al bianco teschio,
e gocce di rugiada lì in basso luccicano
come se le orbite vuote del teschio,
mosse dalla notturna bellezza di maggio,
luccicassero di lacrime dolorose.
[…]

[La traduzione è mia]

Written by matemauro

01-05-2008 at 01:45

Pubblicato su cecoslovacchia, macha, poesia, praga

Jaroslav Hašek

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svejk

Jaroslav Hašek (Praga, 30 aprile 1883 – Lipnice, 3 gennaio 1923) è stato uno scrittore, umorista e giornalista ceco.

"Faccio rispettosamente notare che da militare io sono stato riformato per idiozia, e dichiarato ufficialmente idiota da una commissione straordinaria. Io sono un idiota in piena regola", così, al superiore che lo redarguisce o all’ufficiale di polizia che lo arresta, si presenta, puntualmente e con disarmante bonomia il buon soldato Švejk. E in questa sua autocertificazione di manifesta idiozia, sta tutta la genialità del popolano intelligente e ironico che, con consapevole e micidiale sarcasmo, riversa la ben più manifesta idiozia di ogni forma di autorità sui suoi più ottusi e burocratici rappresentanti.

Scritto al termine della prima guerra mondiale e uscito a puntate, poi raccolte in due volumi, dei quattro previsti se l’autore non fosse morto prematuramente, distrutto dai suoi felici stravizi, Il buon soldato Švejk narra le esilaranti e grottesche avventure di un modesto cittadino praghese, di mestiere venditore di cani, tutti forniti di pedigree rigorosamente falsi, arruolato a forza, dopo l’attentato di Sarajevo al granduca Ferdinando, nell’imperial regio esercito austroungarico, e mandato a combattere (nel suo caso si fa per dire, perché Švejk non sparerà neanche un colpo) sul fronte russo.

Sbattuto inopinatamente al centro di quell’immane macello che fu la guerra, Švejk si districa come può dai legacci della disciplina, divenendo dapprima l’attendente di Otto Katz, cappellano militare e grandioso avvinazzato (il capitolo nel quale è descritta una disastrosa messa da campo è senza dubbio una delle più spassose pagine dell’intera letteratura del novecento), poi del cinico e disincantato tenente Lukaš, il solo, fra tutti gli ufficiali di cui si tratta, che manifesti un barlume di intelligenza e umanità. E l’unica arma di cui il protagonista dispone, e fa abbondantemente uso, in un’epoca che vede solo nella violenza delle armi lo strumento per regolare i rapporti fra gli esseri umani, è quella della ironia, quella del felice sarcasmo, che gli permette di smontare, con inesorabile lucidità, lo stupido autoritarismo del mondo militare.

Pacifista per natura, antimilitarista perché altro non potrebbe essere, furbescamente ingenuo di fronte all’autorità, intimamente e irriducibilmente anarchico nella sua perfetta incapacità di dare un senso agli ordini e ai comandi che gli vengono rivolti, pronto a dissacrare tutti gli aspetti della vita militare riconducendoli continuamente ad aneddoti e fatterelli senza capo né coda (così come è senza capo né coda l’organizzazione della macchina bellica), sempre disposto ad affogare nel piatto e nel bicchiere la drammaticità della situazione, Švejk riesce a rendere allegramente surreale una vicenda che di surreale ha solo la sua immane tragicità. Capovolgendone il senso, infatti, capovolge e restituisce, con gli interessi, tutta l’idiozia di quell’insensato conflitto, così come di ogni altro, passato, presente e futuro. E in questo modo l’intelligente ironia per cui vanno famosi i praghesi coglie un trionfo contro ogni velleità di addomesticamento forzato alle regole del potere e del buon senso comune.

Del resto in Švejk c’è soprattutto l’autoritratto di Hašek. Boemo, bohémien e maledetto, quanto può essere maledetto uno spirito libero e dissacrante che lotta per sottrarsi alle spire dell’imperial regio buon governo di Francesco Giuseppe, Hašek è una delle figure più interessanti e originali del panorama culturale mitteleuropeo d’inizio novecento. Contemporaneo di Kafka, scrittore originale e fecondo, direttore di numerose riviste letterarie e (per vivere) anche, inopinatamente, di riviste scientifiche (in una, Il mondo degli animali, creò un bestiario assolutamente inventato, firmando articoli col nome di suoi amici e suscitando un vespaio di polemiche), abbracciò, negli anni della più matura giovinezza, le idee di emancipazione sociale richiamantesi all’anarchismo, aderendo per parecchi anni al movimento anarchico ceco.

Dadaista, garzone di drogheria, vagabondo, impiegato di banca, negoziante di cani, candidato politico – trentotto voti il maggior successo per l’improbabile e canzonatorio Partito del progresso moderato nei limiti della legge da lui fondato col suo amico e disegnatore Josef Lada -, la sua vita fu un’epopea umoristica, un gioco di contraddizioni, una tela di stravaganze. Formidabile bevitore, appassionato frequentatore di tutte le più infime osterie e birrerie di Praga e della Boemia intera, la sua libertà di pensiero e la sua irrequietezza ne fecero un personaggio imprendibile e incontrollabile, una figura impossibile da classificare. Una volta chiamato alle armi diserta, consegnandosi ai russi e abbracciando il bolscevismo (a quanto lui stesso racconta, ma c’è da crederci?), e rientra in patria solo due anni dopo la fine della guerra, trascinandosi appresso un’altra moglie (una l’aveva sposata a Praga prima di essere richiamato) che spaccia come principessa di sangue reale. Sono questi, i primi anni venti, gli ultimi della sua vita felice e dissoluta, quelli che lo vedono, tra una sbornia e una partita a carte, il felicissimo creatore dell’universale figura del buon soldato Švejk.

Un consiglio? Da leggere, assolutamente! Ne pubblicò un’edizione Feltrinelli nel 1961, con la splendida traduzione di Renato Poggioli, chissà se si trova ancora su qualche bancarella dell’usato? Ed ecco un assaggio.

Un gatto intorno a un piatto di patate

Per il solito gli serviva la messa un soldato di fanteria, che aveva preferito passare al genio telegrafisti e che era stato mandato al fronte.
– Non fa nulla, signor cappellano, – disse Švejk, – io posso sostituirlo benissimo.
– Ma sapete servir messa?
– Non mi ci son mai provato, – rispose Švejk, – ma bisogna provarsi a fare di tutto. Siamo in guerra ed ora la gente fa delle cose che prima non gli sarebbero neppure passate per il capo. Sarò sempre capace di ribattere con un
et cum spirito tuo il vostro Dominus vobiscum. E poi quale difficoltà c’è a girare intorno a voi come un gatto intorno a un bel piatto fumante di patate? Oppure lavarvi le mani e versarvi il vino dal calice…
– Bene, – disse il cappellano, – basta che non mi versiate dell’acqua. È meglio che mi versiate un po’ di vino anche dal secondo calice. Per il resto vi dirò tutto io, se dovrete girare a destra o a sinistra. Se farò adagio un sol fischio, vorrà dire a destra, se ne farò due, a sinistra. In quanto al messale non c’è bisogno che vi diate troppa pena. Tutto il resto è un giochetto. Avete paura?
– Io non ho paura di nulla, signor cappellano, neppure di servir messa.
Il cappellano aveva ragione a dichiarare che tutto il resto non era che un giochetto.
Tutto filò come per incanto. L’allocuzione del cappellano fu estremamente concisa.
– Soldati! Vi abbiamo radunati qui perché prima di partire per il fronte rivolgiate i vostri cuori a Dio, onde ci dia la vittoria e ci mantenga in salute. Io non voglio trattenervi troppo e vi faccio i miei migliori auguri.
– Riposo! – comandò il vecchio colonnello dal battaglione di sinistra.
La messa da campo si chiama cosi appunto perché è sottomessa alle leggi della strategia come una campagna di guerra. Durante le lunghe battaglie manovrate della guerra dei trent’anni, anche le messe da campo durarono in proporzione.
In accordo alla tattica moderna, che vuole rapidi e agili movimenti degli eserciti, anche le messe da campo devono avere un’agilità e una rapidità equivalente.
Questa durò dieci minuti esatti, e i soldati che eran vicini all’altare si stupirono grandemente a sentire che il cappellano fischiava durante la messa.
Švejk eseguiva rapidamente i segnali, volteggiando ora a destra ed ora a sinistra, senza dir altro che
et cum spirito tuo.
Tutto questo armeggio aveva l’aria d’una danza indiana intorno alla pietra del sacrificio, ma aveva questo di buono, che dissipava il tedio ispirato nell’anima dei soldati da quella triste e polverosa piazza d’armi, mal alberata, piena di latrine che sostituivano col loro sentore il mistico aroma d’incenso delle cattedrali gotiche.
Tutti quanti si divertivano come matti. Gli ufficiali che facevan cerchio intorno al colonnello si raccontavano delle storielle allegre. Tutto procedeva in ordine, e ogni tanto si sentiva qualcuno della truppa che diceva:
– Fammi tirare una boccata.
E come il fumo d’un rogo consacrato salivano su dalle bocche verso il cielo le nuvole azzurre delle sigarette. Tutti quanti i gradi si eran messi a fumare fin da quando avevan veduto che il signor colonnello aveva acceso un sigaro.
Quando echeggiò il comando: "Pregate!" il polverone turbinò e il pittoresco quadrato delle uniformi si genuflesse dinanzi alla coppa sportiva del sottotenente Witinger, vinta da lui nella corsa da Vienna a Moedling organizzata dal
Favorito dello Sport.
Il calice era ricolmo, e il giudizio generale provocato dalla manipolazione del cappellano fu espresso nella seguente frase, che corse subito nelle file: "Che garganella!" La manovra fu messa in esecuzione una seconda volta. Al che segui un altro comando di "Pregate!" mentre la musica attaccò insieme l’ouverture e il finale del
Dio proteggi la patria.

In testa: una delle illustrazioni di Lada per la 1° edizione del libro.

Written by matemauro

29-04-2008 at 22:29

Pubblicato su cecoslovacchia, hasek, praga, umorismo

Ancora sulla tolleranza

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Le notizie di questi giorni mi spingono a pubblicare un articolo di una persona che ho conosciuto e stimato molto. Prima l’articolo, poi una breve nota biografica sull’autore.

Eduard Goldstücker

Nota sulla tolleranza

La tolleranza non è un dono della natura. E’ un fiore cresciuto su un terreno reso fertile dai lunghi anni che sono stati necessari all’umanizzazione del genere umano, un fiore sensibile ai repentini mutamenti climatici, per cui esige cure permanenti.
Ricordiamoci che portiamo in noi tutto quanto l’uomo ha vissuto dal tempo dei suoi lontani progenitori. Nulla è andato perduto per sempre: nessuna superstizione, nessuna paura, nessuna speranza. Tutto ciò che una volta è stato espresso o è stato creato è come se fosse contenuto in un immenso magazzino, nel quale i piú tardi successori possono scegliere ciò che loro sembra conveniente per il raggiungimento dei propri obiettivi o per dare significato alla propria vita. Tutto ciò che una volta è stato può ritornare, gli archetipi sono scolpiti nella memoria collettiva.
Non molto tempo dopo la II guerra mondiale il critico e poeta tedesco Hans Egon Holthusen pubblicò una raccolta di studi che suscitò una grande attenzione e il cui titolo – Der unbehauste Mensch (L’uomo senzatetto) – divenne un alato slogan esistenziale del tempo.
Ogni volta che m’imbatto nelle manifestazioni odierne di intolleranza, di xenofobia, di neonazismo, di antisemitismo e cosí via mi torna alla memoria quel titolo. Ho preso in prestito il concetto di uomo senzatetto (nonché il suo complemento, uomo residente) come cifra per due tipi umani che determinano in misura sostanziale la fisionomia del mondo attuale. Ho preferito questa ad altre designazioni perché la coppia antitetica ha in sé – e spero non soltanto al mio orecchio – qualcosa di molto antico, qualcosa che è in noi dagli inizi, qualcosa di atavico, inaccessibile agli argomenti della ragione. Si tratta di quella parte della nostra eredità comune che in questo secolo, a dispetto della civiltà e della cultura, è tornata a emergere e volentieri rimodellerebbe la vita umana sulla Terra secondo la propria immagine.
Parlando di atavismo… Quando gli uomini senzatetto e gli uomini residenti si trovano gli uni di fronte agli altri innanzitutto accertano la reciproca diversità. L’estraneità però suscita istintivamente un senso di pericolo, perché fin dai primordi gli stranieri erano coloro che volevano prendere ciò che apparteneva a me e ai miei: prede, armi, donne, figli, la vita stessa. Dovevano quindi essere espulsi dal “mio” territorio, o uccisi.
Dal punto di vista di una determinata società tutti coloro che a essa non appartengono sono gli altri, gli stranieri, sono una potenziale minaccia. Il mondo si divide in “noi” e “gli altri” e i primi e i secondi si distinguono o per caratteristiche che si colgono a prima vista, oppure per il diverso sistema ideologico – sostanzialmente magico-mitologico – una sorta di cemento che costituisce o conserva una comunità.
Nel nostro contesto tali differenze sono decisive, giacché ognuno di questi sistemi è in verità un sistema fideistico. Ogni fede, si sa, è irrazionale e massimamente convinta di essere l’unica vera. Inoltre, ogni comunità – religiosa o laica – crede in un dio (o in un capo) che ai suoi occhi è l’eletto, di maggior valore in rapporto a chiunque altro.
Quando in tempi difficili si leva un adeguato appello, questo strato dell’eredità atavica è capace di sviluppare una enorme quantità di energia di fronte alla quale non regge alcuna obiezione della ragione e che può manifestarsi con la forza distruttiva di una catastrofe naturale.
In casi del genere accade di solito che i destinatari, cioè le masse cui è stato rivolto l’appello, cessano di avere riguardi per i principi etici elaborati dall’umanità nel corso di millenni. Laddove la fede religiosa è sempre forte, in nome di quel dio ancora rispettato l’appello serve in realtà a fare sí che quanti sono sotto la sua autorità siano disposti a qualsiasi sacrificio. Laddove invece la fede ha perduto l’antico ardore si presentano capi che proclamano di essere inviati dalla Divina provvidenza (o dallo Spirito della storia) e nelle teste dei loro seguaci inculcano l’idea di agire, dietro loro ordine, senza riguardi per il codice morale riconosciuto dalla società, perché il capo assume la responsabilità di ogni atto compiuto in suo nome. A ogni sorta di ciò che oggi si chiama fondamentalismo – religioso o laico che sia – sono comuni i tratti caratteristici fin qui accennati.
Ho parlato di tempi difficili… Possiamo impiegare la definizione per l’epoca in cui vivamo? Ritengo legittimo l’epiteto se parliamo di tolleranza e di intolleranza. Non era mai accaduto prima di vedere tanta gente per le strade del nostro pianeta, alla ricerca di un’esistenza migliore, lontano dal paese natale. (Soltanto dal crollo dell’Unione sovietica, secondo le ultime stime, sessanta milioni di persone hanno abbandonato lí le proprie residenze.) Mai in precedenza il contrasto tra residenti e migranti aveva raggiunto l’odierna dimensione globale. Uomini residenti diventano uomini senzatetto, quantità enormi di persone, nei diversi paesi, abbandonano il modo di vita stanziale e tornano al nomadismo, si mettono in giro per il mondo e si scontrano con gli stanziali, che atavisticamente si sentono minacciati e di conseguenza oppongono resistenza.
Cos’è che provoca questo movimento planetario e questa reazione? Vi è, da una parte, lo standard di vita nei diversi paesi, la dislocazione della povertà e della ricchezza nel mondo di oggi (il tedesco ha il termine Wohlstandsgefälle, che liberamente tradotto potrebbe suonare “fluttuazioni del benessere”), dall’altra la decisione di difendere ciò che è stato acquisito contro quanti minacciano di ridurlo o di farlo perdere. Da tempi immemorabili i nomadi si spostano laddove i pascoli, a seconda delle stagioni, offrono condizioni piü favorevoli per ingrassare e migliorare il proprio bestiame. I nuovi nomadi non portano animali al pascolo, offrono invece la propria forza lavoro laddove può essere sfruttata al meglio, a vantaggio loro e delle loro famiglie.
Lo standard di vita… I paesi del benessere – assoluto o relativo che sia – sono come isole circondate da un oceano – senza confini o relativo – di povertà. Questo contrasto, sempre piú stridente, è il problema di fondo del nostro tempo. E’ questo che produce il trasferimento in massa dei poveri, i quali vogliono ottenere almeno una piccola quota del benessere dei ricchi, e insieme genera diverse forme di difesa. Una difesa che nel nostro secolo ha già inventato e accompagnato il genocidio, con il contributo delle conquiste piú avanzate della tecnica, che fa ricorso a metodi di lotta atavici, pre-etici, bestiali.
Le differenze nel livello materiale di vita tra ricchi e poveri hanno dato vita nelle parti del mondo economicamente piú avanzate a una specie di mentalità da isola assediata, una mentalità che si nutre della presenza costante di una disoccupazione di massa. In larghi strati di popolazione ha messo radici il timore della disoccupazione, si è infiltrato il sospetto che l’estraneo, l’immigrato, l’uomo senzatetto minacci il pane dei residenti. In tali circostanze la sottile pelle della civiltà si crepa e viene alla superficie l’uomo pre-etico, che non sa e non vuole sapere nulla in fatto di tolleranza, al quale – come accadeva una volta al principio della civilizzazione – l’istinto comanda: “Cacciare o uccidere”.
La tolleranza è un fiore artificiale appena cresciuto e sbocciato in un tempo di alto livello di maturità morale, in un tempo in cui l’uomo nell’uomo di un’altra comunità ha visto un suo prossimo, al quale non deve fare ciò che non vuole sia fatto a se stesso. Dare radici a questo fiore nella mente delle moltitudini, da che mondo è mondo, è stato un compito arduo, uno scontro incessante con un terreno e un clima avversi, la necessità permanente di ricominciare dopo le tempeste e le eruzioni. Nel mondo che ci circonda, che offre l’illusione o la trappola del rapido arricchimento ed è insieme attraversato dei timori per il futuro, si tratta di uno sforzo particolarmente difficile, di an uphill struggle, come dicono gli anglosassoni.
 
(Traduzione dal ceco di Luciano Antonetti)

Eduard GOLDSTÜCKER

Germanista e kafkologo di fama mondiale, nato il nel 1913 a Podbiel, nel nord della Slovacchia centrale, terzo figlio di una famiglia di condizioni molto modeste. Nel 1924 rimane orfano del padre. A 18 anni si trasferisce a Praga, per frequentare l’università Carlo e qui diviene presto un dirigente dell’organizzazione studentesca di sinistra; entra quindi nel partito comunista. Nel 1939, dopo Monaco e l’occupazione te­desca di Boemia e Moravia, per sfuggire alle persecuzioni hitleriane (i suoi familiari furo­no uccisi nelle camere a gas di Auschwitz) emigra a Lon­dra. Subito dopo la guerra entra nel servizio diplomatico, è nella delegazione ceco­slovacca inviata a Parigi per la conclusione dei trattati di pace, ricopre incarichi nelle am­basciate nelle capitali francese e britannica, fino a quando diventa il primo ambasciatore del suo paese in Israele. Nominato titolare dell’ambasciata in Svezia, viene arrestato alla fine del 1951; nel maggio 1953, nel quadro dei processi politici successivi a quello contro Rudolf Slánský, è condannato all’ergastolo, perché "na­zionalista borghese ebreo". Trascorre in carcere quattro anni (durante i quali, come dirà lui stesso in un’intervista, “per non soccombere alla disperazione mi sono ripetuto in mente tutta la matematica imparata al liceo”). Riacquista la libertà nel 1955 e gli vengono restituiti i diritti civili e politici. Nel 1963 è tra i promotori e gli organizzatori del convegno internazionale su Kafka, pietra miliare nel movimento civile e culturale culminato con la “Primavera cecoslovacca”, di cui è uno dei principali protagonisti. Eletto nel 1968 presidente dell’Unione degli scrittori, dopo l’invasione dell’agosto è nuovamente costretto all’esilio, espulso dal partito e poi privato della citta­dinanza. In Gran Bretagna, dove trova ancora rifugio, insegna per molti anni nell’università del Sussex. Nel 1990 fa ritorno a Praga, dove muore nel 2000.

Written by matemauro

06-11-2007 at 03:21