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Artemisia Gentileschi

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Artemisia Lomi Gentileschi (Roma, 8 luglio 1593 – Napoli, 1652 o 1653) è stata una pittrice barocca italiana di scuola caravaggesca.
 
Figura inusuale, quella di Artemisia. Suo padre, Orazio, era un ottimo rappresentante della pittura in stile caravaggesco. E, si dice, tale padre tale figlia, ma lei, Artemisia, fece di più: sviluppò uno stile proprio, fervente, teatrale, quasi disperato, e vi riuscì perchè fu la sua vita a essere così. Cresciuta ovviamente tra pennelli e tele nella bottega paterna, mai luogo fu più appropriato per svelarne il talento, ed esso si mostrò da subito, inesorabile. Certo, difficile aspettarselo allora, da una donna. O, per lo meno, da una leggiadra creatura ci si attenderebbero tocchi di colore fatti con armonia, non con una vitalità quasi carnale. E sarà la carnalità, in tutti i sensi, a segnare Artemisia.

Negli anni settanta del secolo scorso la pittrice seicentesca fu un simbolo rivendicato delle donne che chiedevano con forza, nelle piazze gremite da migliaia di “gonne a fiori”, la cancellazione della vergognosa definizione dello stupro, sopravvissuta, nel codice penale, alla impostazione giuridica fascista che cancellava – in un reato orribilmente personale – la vittima stessa della violenta sopraffazione sessuale.
 
Credo che non vi sarà alcuna notizia, l’anno venturo, per l’anniversario molto particolare di un “fattaccio” antico di quattrocento anni, ma purtroppo ancora attualissimo per il suo argomento: un orrendo episodio di stupro, seguito dal silenzio pieno di vergogna della vittima e dai suoi tentativi di ribellione soffocati dalla situazione torbida innescata dalla violenza stessa. Infine il ritrovato coraggio, la rottura dell’argine della vergogna, dello schema sociale del silenzio e quindi il completo riscatto.
 
Artemisia Gentileschi, unica tra le donne del suo tempo, “esercitava l’arte della pittura” nella turbolenta Roma del diciassettesimo secolo. Nella città di papa Clemente VIII la popolazione cittadina non arrivava a centomila abitanti, in maggioranza uomini, armati e pieni di intenzioni bellicose, certo non teneri verso le donne. La corruzione dilagava. Nonostante il coprifuoco imposto dal papa, le mille cortigiane romane uscivano dai loro quartieri per portarsi nei palazzi patrizi a svolgere il mestiere in feste ricchissime dal sapore di orgia (mica tanto diverso da oggi, no?).
 
La criminalità, intensissima, aveva vita facile anche grazie alle numerose zone franche, ai luoghi “intoccabili” raggiungibili, tuttavia, con facilità estrema. Non era possibile, infatti, arrestare i criminali nelle chiese, che erano oltre quattrocento, né si poteva farlo negli ospedali, negli ospizi, nei monasteri e nei palazzi nobiliari. Ai “birri”, quindi, non restava che cogliere i colpevoli in flagrante. Dovevano quindi essere rapidissimi negli spostamenti da un punto all’altro della città. La divisa, consistente in un tabarro nero, li rendeva invisibili nelle pericolosissime notti romane.
 
Artemisia e suo padre vivevano e facevano “arte” in questo contesto. Nonostante la presenza della figlia giovanissima, per di più orfana da piccola della madre, nella sua bottega di pittore Orazio Gentileschi si circondava di compagnie maschili piuttosto equivoche e poco selezionate, convinto di “tenere saldamente in pugno” la virtù della ragazza che, al contrario, invocava inutilmente che la si maritasse al più presto, anche per sfuggire alla tirannia paterna. Agostino Tassi era l’amico più stretto di Orazio. Anche lui pittore, aveva un passato pesante alle spalle: reati gravissimi – omicidio, incesto e stupro – lo avevano condotto in carcere per qualche anno prima della grazia datagli dal papa. La violenza carnale anche sulla giovane figlia dell’amico era nel suo naturale programma.
 
Il mese, maggio 1611: un giorno di pioggia. Agostino entra in casa Gentileschi dalla porta, che i muratori hanno lasciato aperta dopo i lavori di tinteggiatura appena eseguiti. Artemisia è intenta a dipingere in compagnia di una vicina di casa. L’uomo ha intenzioni precise. Manda via imperiosamente l’altra donna minacciandola, e invita la giovane Artemisia a lasciare lo sgabello sul quale è seduta e il quadro che sta dipingendo per “sgranchirsi le gambe” camminando anche soltanto in casa. Dopo pochi passi, intimorita dalle pressioni fisiche dell’uomo e dall’atmosfera torbida che si è creata, Artemisia dice di sentirsi male e di avere la febbre. È l’inizio della violenza. La ragazza viene sospinta in camera da letto, la porta chiusa a chiave. Dopo una resistenza disperata, è sopraffatta. Subito dopo lo stupro Agostino promette alla sua vittima il “matrimonio riparatore”, a patto del silenzio sull’accaduto, però, e ben sapendo che se non lo avesse denunciato subito Artemisia non avrebbe più potuto parlarne al padre. Il gioco gli riesce in pieno. La vergogna costringe la ragazza al silenzio, il senso della propria colpa a mantenere il segreto. E c’è, in fondo, la speranza del matrimonio “riparatore”. Una giovane donna che avesse perduto la verginità, non importava in che modo, era allora socialmente “finita”. Costume duro a morire, mantenuto a lungo, fino oltre la soglia dei nostri giorni.
 
Dopo qualche tempo, la scoperta che Agostino ha già una moglie ed è amante incestuoso della cognata. Finalmente Artemisia esce allo scoperto e denuncia la violenza subita. Viene interrogata più volte, le è applicata la tortura dello schiacciamento dei pollici. Lei non arretra. È ormai la Giuditta del suo stesso stupendo dipinto, colta nell’atto di tagliare la testa al violentatore Oloferne. Dal processo per stupro, scandaloso per l’epoca, la vittima esce vittoriosa; la partita in tribunale si conclude con la condanna di Agostino Tassi, che potrà scegliere tra il bando da Roma o cinque anni nelle galere pontificie. Una condanna benevola, ma una condanna. Ed è la prima volta che accade. Quattro secoli fa.
 
Il Tassi viene rinchiuso in carcere, ma la pittrice deve trovare il modo di uscire “onorevolmente” dalla vicenda: prende per marito un certo Stiattesi e parte con lui alla volta di Firenze, per ricostruirsi in ogni senso. La coppia ha diversi figli, ma la loro convivenza non è serena. In Toscana ha un certo successo: Cristina de’ Medici l’apprezza molto, i suoi lavori sono noti e richiesti, ma i debiti aumentano senza sosta.

Gli spostamenti, nella vita di Artemisia, si fanno costanti: torna a Roma, dove riesce a mantenere una certa fama per le sue capacità, ma dove, però, non le viene commissionato quel qualcosa di “grandioso” di cui la sua carriera avrebbe realmente avuto bisogno. Si sposta dunque verso il 1630 a Venezia per poi passare a Napoli, che diviene, finalmente, casa sua.

 
Si trova bene, è valutata col giusto merito e se ne allontana soltanto per un periodo, per raggiungere il padre a Londra: di nuovo si ritrovano vicini, nella vita e nel lavoro, fino alla morte di lui. Il rientro nella città partenopea è naturale e felice: e qui resta, senza mai smettere di dipingere, fino alla propria morte, nel 1652 (o 1653, a seconda delle fonti).
 
giuditta
Giuditta e Oloferne, 1612-’13, Galleria degli Uffizi, Firenze
 
Dal momento della violenza in poi, i suoi quadri acquisiscono una forza che è vera e propria violenza: la sua risposta a quanto è accaduto è palese nello stravolgente “Giuditta che decapita Oloferne”, dove si estrinseca una rabbia implacabile, una volontà di vendetta che si realizza nella faccia feroce e decisa di Giuditta; le interpretazioni psicologiche si sono sprecate, su questa opera, e non a torto. In una luce da Caravaggio, la protagonista afferra una spada con foga, e con altrettanta foga la passa sul collo di Oloferne. E analoga violenza in un dipinto dall’argomento assai simile, Giaele e Sisara.
 
sisara
Giaele e Sisara, 1620, Szépmüvészeti Múzeum, Budapest
 
Una protagonista dalle curve morbide, tonde, abbondanti, perché spesso, in maniera più nascosta di quanto avrebbe fatto successivamente Frida Kahlo, è quasi certamente se stessa che Artemisia rappresenta fisicamente: il suo volto, la sua sagoma, le sue braccia corpose. Un continuo mettersi in scena, come per esorcizzare la tempesta che ha dentro, il suo passato. Un mettersi in scena per guarirsi, per ricreare di sé un’immagine intera, integra e non violata nell’identità di persona e donna da quanto le è successo, dalla disapprovazione verso di lei, pittrice e femmina e forse dissoluta.

La bellezza della sua arte si perde nella ferita che non guarisce, nel frantumarsi del proprio Io, difficile da ricomporre: i nomi biblici diventano, sotto il suo pennello, quasi feroci, ben poco spirituali: un’angoscia neanche tanto sottile che rende riconoscibilissimo il suo tratto.
 
allegoria
Allegoria della pittura, 1638-’39, Collezione privata di Elisabetta II, Londra
 
Anche nel proprio autoritratto si mostra di profilo, con la testa inclinata, tutta intenta a carpire il soggetto. Non mostra il viso, ma soltanto se stessa nella posizione adatta a vedere, forse vedersi, una mano pronta a imprimere sulla tela probabilmente il viso che è il suo. Un’idea innovativa: non ripropone sé, ma se stessa mentre è intenta a scorgere o scorgersi. E il titolo: Autoritratto come allegoria della pittura. Ed è lei la pittura: ecco dunque che si compie, il tentativo di ricostituire un’integrità, un’identità per sopravvivere. Lei è la pittura; e così può superare ciò che è stato dramma. L’arte che non è più estasi, ma bisogno, che non è più altrove ma diventa un nome e un corpo: Artemisia. È in questo dipinto che si mostra la volizione: io sono la Pittura, nessuno lo può negare, ciò io sono, e non lo si può togliere; nessuna onta può farlo.
 
Un ulteriore esempio, ove ce ne fosse bisogno, di come le doti artistiche possano essere processo per risanarsi, nell’espressione e liberazione di quanto interiorizzato male e con dolore. E da qui emerge dunque un immane talento, riconosciutissimo all’estero e molto meno, come al solito, da noi.

Written by matemauro

07-07-2010 at 16:44

Pubblicato su arte, gentileschi artemisia